Quello del social media editor è un ruolo appena nato (o quasi) e già destinato a sparire: prima o poi tutti i giornalisti saranno costretti a saper usare bene i social media.
Intanto, come disse Dick Costolo, quando era ceo di Twitter, il social dei cinguettii che tanto somiglia al flusso delle agenzie di stampa, sui social network non è obbligatorio dire qualcosa, ma per un giornalista è molto consigliato esserci per avere notizie il prima possibile e dalla fonte più attendibile, magari bollinata in blu, quel blu che certifica: sì, è proprio Matteo Renzi. Dalle dimissioni di Pierluigi Bersani da segretario del Partito democratico alla rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca, la cronaca degli ultimi anni è fatta di notizie e convocazioni di Consigli dei ministri giunte prima con un tweet e poi con il resto. Da quando quasi tutte le istituzioni pubbliche e i soggetti privati rilevanti hanno account e linee di azione sui social, per un giornalista non esserci significa avere molte meno fonti di notizie e poter godere di molta meno rapidità e facilità nell’approvvigionamento delle stesse. Il primo punto, dunque, è esserci per leggere, capire, studiare e monitorare i temi di maggior interesse in rete. I social network, infatti, sono parte fondamentale del nuovo “giro di nera” che un giornalista può fare sulla rete, alla ricerca di spunti, storie, idee, notizie, come un tempo il cronista poteva farlo, il giro di nera, gironzolando la mattina tra questura, ospedali e circoli di aggregazione. Ora dobbiamo consumare le nostre suole (anche) sul web. I social media sono un anello fondamentale nel circolo virtuoso creato dai nuovi media: dal giornale al sito, dal sito al blog, dal blog ai social, per tornare al giornale con titoli come “rivolta sul web”, “entusiasmo su Facebook”. Un giornalista contemporaneo è bene sappia maneggiare tutti gli ingranaggi del circolo virtuoso.
Il secondo punto è che con i social media possono essere raggiunti sempre più (potenziali) lettori. Se si pensa che, secondo del rapporto Censis del marzo 2015, il 71% della popolazione italiana è connesso a Internet e il 50,3% della popolazione è iscritto a Facebook con un picco del 77,4% degli under 30 e con Whatsapp in fortissima crescita tra i giovanissimi, si coglie subito il peso di questo strumento di distribuzione (anche) delle notizie. Certo, solo il 10,1% della popolazione è iscritto a Twitter, ma è anche probabilmente la parte di opinione pubblica più alla ricerca di notizie. Insomma, è ormai fuori discussione il ruolo centrale della rete e dei social nella diffusione delle informazioni. Per questo, oltre a leggere, i giornalisti devono iniziare a pensare a scrivere sui social. In realtà, la figura del social media editor, in Italia in particolare, è nata per l’esigenza, molto sentita da direttori ed editori, di gestire situazioni di crisi, come un’ondata negativa di commenti su un articolo, il dibattito troppo acceso tra un giornalista e un lettore, imprevisti di qualunque genere che possono verificarsi tra media e pubblico. Ma da questa esigenza a quella di avere un esperto capace di diffondere di più, meglio e con costanza i propri contenuti sulla rete il passo è ed è stato breve. Per questo motivo un social media editor oggi deve saper usare i social e i tool, gli strumenti come Hootsuite, Tweetdeck, TweetStats, per fare solo alcuni esempi, per gestire più account, su più social e per programmare la pubblicazione di post, oltre che per rispondere, quando lo si ritiene utile, alle sollecitazioni che giungono dai navigatori-lettori, e per monitorare l’andamento e l’efficacia della propria azione e della propria strategia.
Oltre agli aspetti tecnici, è bene inoltre che un social media editor accorto conosca bene le regole di comportameto (pdf), diciamo pure d’ingaggio, che regolano, formalmente e informalmente, la vita sui social media. Sono ovviamente regole non scritte, consigli plasmati dall’esperienza, ma alcune considerazioni sono sempre più diffuse. Intanto un giornale come un giornalista deve entrare e agire sui social con la propria identità nella forma più genuina: un social è uno strumento e semmai un ambiente, dobbiamo entrarci come noi stessi e non lasciare che la nostra identità sia definita dal social o dalla voglia di audience sul social. In quest’ultima circostanza il tutto apparirebbe posticcio, “fake”; non funzionerebbe. Bisogna poi sapere che i social media hanno molte dimensioni e fonti di dati: il post, il gruppo, l’evento, il link tra account, gli hashtag, le campagne. Guardate la vostra timeline di Facebook, si vedono centinaia di informazioni e di dimensioni. Vanno monitorate bene tutte. Occhio sempre a non perdere di vista il contesto: per esempio, un retweet di un tweet all’apparenza innocuo può invece far danni se quel tweet era una porzione di una lunghissima, vasta e animata conversazione, magari con insulti e offese. Un giornale e un giornalista devono sempre contestualizzare bene una loro azione sui social media. Attenzione, dunque, ma anche, come diceva Helenio Herrera: “Pensa veloce, agisci veloce, gioca veloce”. Serve un social media editor esperto perché, ovviamente, la rete premia l’accuratezza nella velocità.
Le potenzialità sono enormi: un tempo per dare una notizia scomoda Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia doveva azionare le rotative – “E’ la stampa, bellezza!” -, ora potenzialmente basta un tweet. Ma con le potenzialità ci sono anche i rischi, moltiplicati dalla ampiezza e dalla rapidità nella diffusione dell’informazione. Ecco perché gli antichi valori e principi della stampa devono valere, anzi sono ancora più decisivi, sui nuovi media: verificare la notizia, darla in modo corretto, ammettere l’errore, se e quando c’è, astenersi dall’esporre più l’ego dell’autore rispetto alla rilevanza del tema o della storia. La buona regola “se hai un dubbio sul tuittare o no una cosa, non farlo” preserva dai guai, per questa ragione è tenuta molto presente al New York Times, per esempio. Molto saggio.