Perché Barack Obama soffre già a due anni dalla vittoria più clamorosa della storia degli Stati Uniti? Un'ipotesi. Gli elettori americani amano molto lasciare svolgere il proprio compito al loro presidente. Per esempio, dopo i primi quattro anni, il repubblicano George W. Bush aveva deluso molti elettori, anche tra i suoi più accesi sostenitori, eppure stravinse contro John Kerry. Perché aveva un lavoro da terminare, la strategia della guerra al terrorismo jihadista. Non importava tanto se avesse ragione o torto, se la strategia stesse funzionando o no, per gli elettori importava che finisse il lavoro, nel bene e nel male. Questo perché il pragmatismo americano non prevede compiti o lavori lasciati a metà. Il problema è che Obama non si è dato ancora un compito, una vera missione. Ovvero, la missione – it's the economy, stupid – gliel'ha fornita la cronaca, come accadde con Bush dopo l'11 settembre. Ma Obama non ha scelto davvero una strategia definita. Così ora scontenta i keynesiani durissimi alla Paul Krugman, che ora dicono che il presidente ha sbagliato perché non ha speso abbastanza per battere la crisi. Ma scontenta anche i liberisti puri, che ora dicono che il presidente ha sbagliato perché ha speso troppo e così facendo non solo non ha curato la crisi, ma forse l'ha addirittura aggravata. In tempi ordinari scontentare sia a destra sia a sinistra può essere la prova di un pragmatico buon governo dal centro, ma in momenti straordinari – come dopo l'11 settembre o dopo il collasso economico- finanziario – bisogna avere una strategia straordinaria. Se vedono una strategia straordinaria, gli elettori americani tendono a rafforzarla con il loro voto, salvo poi cambiarlo, il voto, se alla fine quella strategia risulta insoddisfacente. Ma se non vedono una chiara strategia forte gli elettori americani cercano punti di riferimento e idee da destino manifesto, non tattiche malcerte da chi più che a mid-term sembra in mezzo al guado.
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