Ho amato, come tanti giornalisti (e tanti lettori), Giorgio Bocca, pur non condividendo molte sue idee, soprattutto quelle sull'11 settembre. L'ho amato innanzitutto come maestro di giornalismo. Trovare qualcuno capace come lui di dire in due parole quel che molti dicono in 180 righe è dura, durissima. I suoi libri sui partigiani delle montagne, poi, sono di una dolcezza sorprendente, soprattutto pensando ai tratti duri del suo volto e della sua penna.
Le sue parole sono sempre state davvero pietre: dure, appunto, grezze, solide, certe. Non se la menava mai, raccontava e basta. Certo, raccontava dal suo punto di vista, ma quel punto di vista non se lo lustrava con giri di parole o con altezzoso senso di superiorità, lo scagliava. Bocca scagliava le sue pietre senza l'arroganza che fossero le prime.
Eppure primo fu spesso: nel capire alcuni guai del Sud, nel raccontare il lato oscuro della forza industriale, nel cogliere sul fatto la nascita della Lega, nel difendere Enzo Tortora, ma anche nello schierarsi con i giudici di Mani pulite (qualcuno dice "troppo", io un po' lo penso, ma è anche vero che l'inchiesta di Tangentopoli era per Bocca il coronamento di molte sue invettive nel compimento giudiziario del cambiamento, o almeno così sperava).
Ho conosciuto Giorgio Bocca. Era il 1994, l'anno di Berlusconi e dell'alluvione in Piemonte. Dovevo intervistarlo, ma l'alluvione rischiava di non far arrivare in tempo un ventenne qualunque, io, alla prima intervista di peso. In un albergo che aveva il gruppo elettrogeno, divorai "il Sottosopra". Con mio nonno anziano sulla sua Uno e io bello comodo sulla mia jeeppetta tornai a Milano. Mi presentai nella sua casa milanese vicino a piazza San Babila. Mi accolse con un volto scuro, una stretta di mano pesante e un telefono grigio della Sip sulla scrivania. Tentai di spezzare la mia angoscia raccontandogli di mio nonno: "Lei arrivò su un camion requisito a una pattuglia tedesca. Mio nonno l'aspettava nascosto dietro l'angolo della piazza, temeva fosse davvero una pattuglia tedesca…". E lui: "Come si chiamava suo nonno?". E io, capendo che certo non al vero nome e al vero cognome si riferiva: "Annibale". E lui: "Ah, già, quello di Roma (era di Viterbo, ndr)… mi rubò le armi". E sorrise, mentre io pensai: "Ma la denuncia è proprio la sua passione…".
Tenne me, cioè un nessuno pischello, a parlare per due ore di tutti i mali dell'Italia, paese "sottosopra". Mi tenne in quella grande sala, casa, ufficio, piena di libri e di carte, come forse tutte le case dei grandi giornalisti, ma più seria di tante, oggi si direbbe "sobria". Mi raccontò che mandava i fax degli articoli scritti a macchina. Così anche con i libri. Mi chiese dell'alluvione nelle (sue) Langhe. Aveva un portamento nobile, ma faceva una smorfia della bocca tipica delle osterie. Ammise che mio nonno, garibaldino, in fondo fece bene a rubargli le armi, perché loro, di Giustizia e libertà, arrivavano stremati in Piemonte dopo mesi durissimi in Valle d'Aosta, e a loro gli americani lanciavano dall'alto le armi, ai garibaldini un po' meno.
L'intervista e il giornale per cui gliel'avevo fatta non sono mai usciti. La mia sensazione fu che lui ce l'avesse con la cosiddetta casta, ma il problema grave è che considerava la maggioranza degli italiani come semplici aspiranti membri della casta. Aveva poca fiducia nelle capacità di autocritica degli italiani, per questo aveva deciso di non smettere mai, lui, di criticare i vizi nostrani. Fino alla fine.
Con quella voce sempre un po' afona, mi spiegò che per un articolo un'idea basta, a volte è perfino troppo; per una buona frase servono al massimo una decina di parole, ma per il titolo di un libro assolutamente una, semmai due. Non mi sembrò simpatico, né tantomeno mi sembrò voler esserlo, ma vero sì, genuino e disinteressato, come il vino del suo Piemonte. Salute.