Per il governo la questione dell'articolo 18 è chiusa e la riforma del lavoro avviata. Nessun dubbio che, almeno nei principi appena enunciati, la riforma è ampia, radicale e profonda. Resta l'incertezza sullo strumento legislativo. E non è cosa di poco conto. Soprattutto dal punto di vista politico. Il decreto di legge sarebbe un segno di forza dell'esecutivo, soprattutto sarebbe un'ulteriore carta alta giocata per rassicurare i mercati, ma metterebbe in serio imbarazzo uno dei tre partiti che sostengono la maggioranza, il Partito democratico.
Pier Luigi Bersani, leader del Pd, ha rivendicato di aver fatto una scelta di responsabilità quando, invece di chiedere il voto per raccogliere una probabile vittoria, ha deciso di appoggiare un governo assieme al Pdl e al Terzo polo. Il Pd ha dovuto poi governare politicamente una radicale riforma delle pensioni e ora si ritrova a dover gestire una netta riforma del lavoro, articolo 18 compreso, con la Fiom in sciopero e la Cgil contraria.
Lo strumento della delega permetterrebbe al Pd di ispirazione più socialdemocratica di contrattare, allungare i tempi, dialogare con i sindacati, magari perfino scavallare il voto amministrativo, e ottenere qualcosa in più, o almeno far mostra di ciò. Altrimenti, gli spazi di manovra si chiudono e i problemi seri per Bersani si spalancano.
Su Twitter, esponenti del Pd dell'area più centristra, come Paolo Gentiloni, già dicono che è una buona riforma, ma c'è da scommettere che per Bersani sia meglio pensare che la questione non sia ancora del tutto chiusa. «Il tavolo è ancora aperto e l'obiettivo resta lo stesso: accordo, accordo, accordo», hanno infatti subito spiegato fonti vicine al segretario del Pd.