Adesso dipende tutto da Bersani

Adesso dipende quasi tutto da Pierluigi Bersani. In fondo, il segretario del Partito democratico è l'unico, assieme a Beppe Grillo e a Mario Monti, che non c'era l'altra volta. O meglio: c'era, è stato ministro con Romano Prodi, ma non era in primissima linea.

Gli altri, più o meno, c'erano tutti: Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Roberto Maroni, Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Antonio Di Pietro, perfino Nichi Vendola, eccetera. Di loro si conosce già il gioco che fanno. Le loro tattiche sono abbastanza prevedibili (anche nell'imprevedibilità berlusconiana).

Sono leader rodati, alcuni un po' usurati. E' molto difficile per loro inventare qualcosa per non dare la sensazione del già visto. Questo spiega l'interminabile attesa di qualcosa che dovrà prima o poi accadere, di qualcosa di nuovo.

Ecco, ora tocca a Bersani imporre il suo gioco, se ce l'ha. Il rischio per il Pd – e questo forse indurrà il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a pensarci bene prima di candidarsi alle primarie – è quello di scomparire dal proscenio perché indeciso, dilaniato dai dibattiti interni su formule e parole antiche, incapace di scegliere tra coraggio, senso di responsabilità e ricette innovative, tra Vasto e l'alleanza con il centro, tra Hollande e qualcosa di più nostrano.

Certo, per Bersani il timore è quello di restare l'unico leader nazionale, assieme a Casini, a sostenere davvero Monti in campagna elettorale. Ma se per Casini questo è uno scenario naturale, per Bersani e l'elettorato del Pd lo è molto meno, i prezzi di pagare potrebbero essere più alti a sinistra che al centro.

Per queste ragioni, ora a Bersani conviene giocare all'offensiva, ha bisogno del suo Lingotto, deve tentare cioè di imporre il suo gioco, con parola orribile si potrebbe dire che al segretario del Pd conviene avviare la sua "narrazione" della lunga campagna elettorale prima che gli altri scrivano un copione che lo relegherebbe a comparsa, di peso ma pur sempre comparsa.