"Il pluripremiato ciclista americano Lance Armstrong ha gettato la spugna e non si opporà più alle accuse dell'agenzia americana anti-doping".
Lo so, bisognerebbe parlare soltanto dell'editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, bisognerebbe dedicarsi soltanto alla decrittazione del suo commento di oggi (secondo me, sostanzialmente ha detto al Fatto in generale e a Marco Travaglio in particolare: ve l'avevo detto già due mesi fa, l'inchiesta politico-mediatica-giornalista doveva e deve fermarsi al livello di Mancino), ma il caso del giorno è la resa di Lance Armstrong. Dico subito che sono di parte, sono da sempre un suo ammirato sostenitore. Anni fa scrissi anche un suo ritratto sul Foglio, eccolo: "Il texano che disse al cancro: 'Sbagli persona'".
Per me, restano "Sette tour sulla strada". Armstrong è stato il ciclista più controllato e inseguito dall'antidoping nella storia del ciclismo, anche per la sua precedente malattia. I francesi prima e gli altri poi non hanno mai voluto credere alla favola bella dello sportivo malato, guarito, trionfante, soprattutto perché in quegli anni corridori francesi venivano presi all'antidoping. Hanno sempre coltivato il sospetto e cercato il corridore, magari un compagno di squadra maltrattato, pronto a confessare qualche misfatto, finché l'hanno trovato.
Se tutti gli sportivi fossero sottoposti a ciò cui è stato sottoposto Armstrong, nessuno sport sopravviverebbe. Qualunque sportivo, sottoposto a ciò cui è stato sottoposto Armstrong alla fine avrebbe fatto una e una sola: avrebbe detto "basta", come ha fatto il campione texano per stanchezza e non per ammissione di colpa come ora si tenderà a dire.