Jeff Bezos ha comprato con i suoi soldi, con 250 milioni di dollari, cioè l'1 per cento della sua disponibilità, il (o la) Washington Post. Per l'editoria americana, ma in prospettiva anche per quella globale, può essere una buona, anzi, un'ottima notizia. Per una serie di ragioni.
Intanto conferma l'interesse di grandi imprenditori per i cari, vecchi giornali, dopo ovviamente Rupert Murdoch e Warren Buffett e altri casi in giro per il mondo, buon ultimo il patron dei Red Sox che si prende il Boston Globe.
Certamente le cifre di cui si parla oggi, nelle compravendite dei giornali, non sono quelle di anni addietro. Ma resta confermato comunque l'interesse verso una forma di prodotto che molti si ostinano a dare per morto da tempo. Notizia quanto meno prematura.
Comunque sia, l'acquisto di Bezos è già di per sé la notizia simbolo di un cambio di fase, perché l'arrivo poderoso di un alfiere del nuovo mondo nella tradizione della stampa segna il cambio di passo di molti dibattiti su come portare l'editoria nell'era digitale.
Jeff Bezos è un innovatore, delle cose (il Kindle, l'ebook) e dei metodi (il "delivery", il commercio a distanza). Ogni business in crisi – e l'editoria tradizionale è un caso di questo tipo -, per rilanciarsi, deve rinnovarsi. E per innovare servono gli innovatori. Non fa una grinza, no?
Certo, innovare significa rischiare. A volte va bene, a volte va male (vedi alleanza tra Newsweek e Daily Beast). Come Bezos sa, per innovare bisogna anche sperimentare e per sperimentare servono imprenditori capaci di rischiare di tasca propria. E pare che Bezos abbia intenzione di fare tutto ciò.
Vista la cifra irrisoria – ovviamente per i conti di Bezos – c'è chi pensa che questo acquisto per lui significhi soltanto il volersi togliere uno sfizio, regalarsi un "giocattolo", utile magari per aumentare la propria forza politica (a Washington), in vista, chissà, di qualche suo impegno sulla scena pubblica.
Il rischio ci può anche essere, ma c'è da scommette che Bezos sappia che il dibattito su innovazione ed editoria sarà da oggi caratterizzato da un nuovo evento spartiacque: prima e dopo Bezos. E c'è da scommettere che, anche in prospettiva, Bezos non voglia passare alla storia come l'innovatore che non seppe innovare il mondo dei media tradizionali.
Inoltre, sarà pure irrisoria per le tasche di Bezos l'esposizione finanziaria sul Washington Post, ma è nello spirito imprenditoriale investire per produrre valore e profitto. Difficile che Bezos voglia fare il mecenate e basta.
Certo, il valore dell'editoria si misura spesso in peso culturale più che in ebitda o similia, ma anche questo è un segno (positivo) dei tempi di passaggio dal vecchio al nuovo per i giornali.
Bezos ha comprato soprattutto il brand "Washington Post", ovvio, ma dici poco. Il brand è l'asset degli asset nel maremoto e nel mare magnum della colossale informazione digitale.
Ultimo spunto. Sempre più operatori della rete in senso lato si stanno accorgendo che il web ha senso se sul web vengono trasmessi contenuti. Dunque, ci sarà sempre più dibattito su come unire mezzo e messaggio nella trasmissione ultraveloce e molto diretta dell'era digitale.
Se ho un acquedotto, ma ho finito l'acqua, a che mi serve? Ecco, un discorso analogo può valere nel fiume della rete. O no? Finora Bezos si occupava soprattutto di acquedotti.
C'è un altro aspetto che però diventa meno rilevante visto che Bezos ha acquistato in quanto Bezos e non in quanto Amazon il (o la) Washington Post. L'aspetto è questo: l'editoria viene sempre più spesso pensata e vista come un business fratello (con appunto un valore più culturale, politico, di brand, di posizionamento, che non finanziario) di altri più lucrosi settori. Come un cinema per film di cassetta che dedica una sala per l'opera lirica o per i capolavori di Chaplin. Si fa per semplificare, ovviamente.
Può essere in parte fatto, per esempio, un parallelo tra le Fondazioni culturali che affiancavano e affiancano le grandi corporation con ruoli più sociali, sebbene siano comunque gestite, queste Fondazioni, con regole economiche e logiche aziendali. Se il brand è preservato, il lavoro giornalistico pure, non è detto che anche questo sia uno scenario negativo per il settore. Anzi.