Pare che Gianni Cuperlo, sfidante di Matteo Renzi nella stagione congressuale democratica prossima ventura, ami spiegare così la sua gara nel Pd quando parla con amici e conoscenti: "Sto facendo un'arrampicata in montagna, sulle Dolomiti e con le infradito".
Battute a parte, quella di Cuperlo, comunque la si pensi, è una scommessa tutt'altro che defilata, di basso profilo e davvero in controtendenza. Ecco perché.
Stamattina, a Omnibus su La7, a precisa domanda Cuperlo ha risposto che sì, lui intende la sua candidatura tesa a raggiungere la guida del partito, e non punta, almemo per ora, alla premiership, e ha spiegato anche perché: il governo non è tutto, anzi, "il governo non basta".
E' importante, per Cuperlo, rivitalizzare la forma partito come strumento di creazione del consenso attorno alle (necessarie) riforme che i governi futuri dovranno varare. Dunque, torna l'idea del partito "cinghia di trasmissione", facilitatore dei processi, tra la società civile e la politica, tra l'elettore e l'eletto, tra il cittadino e le istituzioni.
La scommessa è tosta – i partiti non godono certo di chiara fama di questi tempi – ma si basa su un dato di fatto difficile da negare: l'Italia è un paese che fatica ad accettare (anzi forse non vuole proprio ammettere) che deve essere riformato. Gli italiani sono in maggioranza antiriformatori o, nella migliore delle ipotesi, ariformatori. Dunque che si fa?
In effetti, senza l'urgenza dei pericoli (vedi crisi del debito sovrano dell'anno scorso) o senza il vincolo esterno (vedi ingresso nell'euro e lettera della Banca centrale europea) quasi nessun governo è riuscito nel corso degli (ultimi) anni a portare fino in fondo processi di riforma compiuti.
Come aggirare il (grave) problema?
La via scelta da Silvio Berlusconi, da Walter Veltroni, da Romano Prodi e ora, almeno in parte, anche da Matteo Renzi – cioè dai leader dell'era più propriamente maggioritaria – è quella del dialogo diretto con i cittadini-elettori: partito leggero, oppure non partito, fidatevi di me, io farò le cose che vanno fatte.
Diciamo che il bilancio, nel caso del recente passato e per chi ha potuto cimentarsi a Palazzo Chigi, può lasciare non particolarmente soddisfatti nel giudizio a proposito delle riforme. Mario Monti, invece, ha tentato la via inversa: mi avete chiamato alla guida del governo per fare riforme urgenti con l'assillo del pericolo imminente di un collasso, ora vi chiedo il consenso per le altre necessarie riforme per la crescita. E' andata com'è andata. Purtroppo gli è mancata, almeno per ora, la capacità di raccogliere un seguito davvero vasto, nonostante il risultato elettorale – con i sacrifici chiesti agli italiani dal Monti premier – non sia stato così deludente come qualcuno dice.
Cuperlo, visto e dato tutto ciò, prova (ri)battere un'altra via: ridiamo forza ai partiti, anzi all'ultimo partito (quasi tradizionale) rimasto, perché grazie ai partiti, al partito, si creano il consenso e i luoghi di discussione e di elaborazione delle idee e dunque le camere di compensazione e le cinghie di trasmissione, chiamatele come volete, insomma le condizioni necessarie per fare vere riforme, senza eccessi di disagio sociale e contrapposizioni.
L'idea di fondo di Cuperlo è: ripartire dalla politica, cioè è meglio convincere piuttosto che imporre o promettere, dicendo "fidatevi di me" o "ghe pensi mi".
Non è programma da poco, questo, ma poggia su una caratteristica (problematica) ormai storica del suo partito: il mal di capo, l'idiosincrasia nei confronti del concetto di "leader", di uomo solo al comando, quella che ha portato, assieme ad altre circostanze anche regolamentari, alla vittoria di Pierluigi Bersani e alla sconfitta di Matteo Renzi alle ultime primarie per la candidatura alla premiership.
I pro della sfida di Cuperlo
Prima o poi l'antipolitica suonerà antica quanto la politica, cioè avrà stancato. Dopo l'era dei leader non è detto che non torni quella delle squadre. Una cultura delle riforme è la base per una politica delle riforme. Il Partito democratico ha già un suo esponente a Palazzo Chigi, Enrico Letta, per di più proveniente dall'altra tradizione politica confluita nel Pd, quella popolare, dunque nella divisione dei compiti e dei pesi ci sta che al partito vada un esponente che voglia occuparsi soltanto del partito, per di più proveniente dall'altra tradizione politica confluita nel Pd, quella diessina. E così anche il bilanciamento delle anime è garantito.
I contro
La maggioranza degli italiani oggi non sembra avere fiducia nei partiti (vedi il nulla ancora di fatto sullo stop ai fondi pubblici per le forze politiche). Le società contemporanee hanno i minuti contati nei processi decisionali: c'è ancora spazio per vere e proprie cinghie di trasmissione? La tv decide tanto in campagna elettorale. La rete e le telecomunicazioni sempre a portata di mano hanno ridotto l'importanza dei luoghi fisici e delle organizzazioni intermedie dando ai cittadini-elettori la voglia, forse un po' illusoria, di crescere nel contatto diretto con il leader, con il rappresentante, con l'eletto, con il decisore.