Michele Serra ha scritto un doporomanzo di dopoformazione sontuoso e capace di contenere a poche pagine di distanza la parola "dagherrotipo" e la parola "merda".
E' sontuoso perché è un romanzo liberatorio. Perché gli inglesi, quando parlano degli americani, dicono "divided by a common language", divisi da una lingua comune, e Serra inventa un romanzo sul "divisi dallo stesso cognome", "dagli stessi geni", cioè praticamente indissolubili, seppur differenti. E' questo il miracolo del rapporto tra un padre e un figlio. Provate voi a raccontarlo, se ne siete capaci.
E non è affatto il romanzo su un padre troppo colto per non essere dubbioso, su un padre di fronte alla constatazione che "io sono un borghese di sinistra. Da nessuna parte è scritto che anche tu debba diventare un borghese di sinistra".
Certo, magari ci sarà anche tutto questo, ma non è affatto un romanzo sugli adulti contro i ragazzi, sebbene nel romanzo dentro al romanzo ci sia anche la guerra mondiale generazionale che caratterizza quasi tutte le generazioni.
No, è molto di più, in quanto è uno scritto colmo di una liberatoria malinconia tale che puoi ridere e puoi piangere, ma alla fine semplicemente scegli di vivere, lui e io. Non è un saggio, perché ha la scrittura di un racconto letterario e l'idea di una storia. Non è un romanzo di formazione, perché non c'è la formazione di qualcosa o di qualcuno, c'è semmai la dopoformazione: che cosa succede dopo che qualcosa e/o qualcuno è diventato qualcosa e/o qualcuno? Che cosa succede a un padre dopo che è diventato un padre adulto? Che cosa succede a un ragazzo dopo che è diventato un ragazzo non ancora adulto? Quando si può smettere di combattere contro la propria inadeguatezza nei confronti di quello che ognuno è (ormai) diventato? Questo è il dilemma esistenziale di un romanzo breve, dunque fulminante e anche per questo liberatorio, come un fiato sgorgato di botto, come per sorridere dopo aver accompagnato a casa un figlio che non vive con noi, quando dunque vorremmo un po' piangere. Un fiotto di energia e di ansia repressa.
Prima grottesto, poi ironico, alfine salvifico. Sali, sali, di sorriso in sorriso, tra una vendemmia contro una lunga dormita (e già questo racconto vale il prezzo del biglietto), uno spassoso pomeriggio in un negozio super del momento (e già questo vale il costo del volume) e un monte che va scalato in due, perché da soli non ha senso, con un paio di scarpe e un cavallo dei jeans che a pensarci fanno quasi spavento ma anche identità dell'altro: tu non puoi capire, io sì.
In un romanzo non ci sono responsabilità da assumersi, per fortuna, in un romanzo ci sono sensazioni da rendere comuni perché, appunto, è un romanzo, narrativa, storia che ti racconto e basta. Figuriamoci se ci sono colpe da attribuire: no e no. E ne "Gli sdraiati" (Feltrinelli) ci sono eccome, sensazioni comuni in forma letteraria, ci siamo tutti, con Serra.
Pochi padri hanno la fortuna di riuscire a raccontare il sentimento, pochi figli hanno in sorte un padre capace di farlo. Per questo esistono gli scrittori, per questo esistono i romanzi. Ti devono conquistare, magari all'inizio anche con un pregiudizio: non mi dire che è un libro contro i giovani soltanto perché i giovani d'oggi sono disciplinati nel loro essere annoiati e non fanno le (finte o vere) rivoluzioni, ma si adagiano in posizioni orizzontali adiacenti a un decoder? Non sarà mica anche colpa dei padri? Tutto questo non c'è e non c'entra.
No, è un romanzo con la forza dell'esistente, del reale, dell'accettazione. E' la verace versione in vitale e ironico, con tratti della parodia, del più grande amor paterno degli ultimi anni, ovvero quel capolavoro del romanzo di Cormac McCarthy. Soltanto che ora "la strada" è in salita nel senso della montagna. Tutto sta a vedere chi arriva lassù e come. L'importante è sapere che nel tragitto siamo noi, anche se sorridiamo con gli occhi lucidi, siamo noi.