Qualche giorno fa, con Michele Dalai, Christian Rocca e Francesco Costa, mi è capitato di presentare il bel "manuale di chi tifa Inter" scritto dal giovane e bravo giornalista Nicola Mirenzi (#amala, Fandango editore). Il volume ha due meriti: coglie i due punti fondamentali della storia recente della squadra del triplete mai stata in B, ovvero la sua natura Internazionale (e dunque al passo della globalizzazione fin dai primi del '900, fin dalle origini), dunque Erick Tohihr era di casa prima ancora di essere arrivato (olè), e il passaggio di fase epocale del periodo mouninhano, quello che in fondo non finirà, perché come dice Mourinho stesso lui resta interista.
La mia tesi è che sia Tohihr sia Josè Mourinho abbiano in fondo rappresentato e rapprentino due ritorni alla vera essenza dell'Inter, globale e magica (vedi Helenio Herrera, il Mou del primo Moratti).
Mirenzi ha però anche una colpa gravissima, quasi quasi pecca di collaborazionismo con il male, perché con una punta di revisionismo storico avalla alcune delle maldicenze juventine sulla squadra di cui amano sempre parlare, ovvero l'Inter del triplete mai stata in B.
Gli juventini sembrano infatti ossessionati dai colori nerazzurri, non riescono a non parlare dell'Inter. Ecco cui un esempio: Camillo. "Dove c'è uno juventino – ho pensato leggendo il libro di Mirenzi – c'è qualcuno che parla dell'Inter. Se ci fosse un'esplosione nucleare e sopravvivesse al mondo soltanto uno juventino, sapremo con certezza due cose: la prima è che la disonestà la fa franca, la seconda che si parlerebbe ancora, soprattutto dell'Inter".