La cultura politica italiana, di cui fanno parte anche i mass media ovviamente, ha due modi di affrontare la situazione. Il primo è l'emergenza, vedi i governi Amato, Ciampi, Monti, soltanto per fare tre (più o meno recenti) esempi. Il secondo è la rassicurante normalizzazione, vedi i governi Prodi, Berlusconi, Letta, soltanto per fare tre (più o meno recenti) esempi.
Il pendolo psicologico della nazione, da sempre impegnato in un corpo a corpo con le istante bipolariste se non bipartitiche degli italiani, è dunque tra questi due poli: la sensazione, spesso giustificata, di essere di fronte a un'emergenza che chiama un governo, un leader, una soluzione di emergenza; il desiderio strategico di rassicurante normalità che induce a non vedere fino in fondo la gravità dei problemi e l'ormai ventennale non crescita della nostra economia e che chiama governi di un colore piuttosto che di un altro ma comunque tesi a scommettere sulla normalizzazione e su una rassicurante finzione di ripresa e di sviluppo perennemente a portata di mano, anche senza riforme strutturali.
Ora, negli ultimi tre anni, il pendolo psicologico della nazione ha oscillato velocemente e in un tempo relativamente breve dall'emergenza a un passo dal baratro e dal richiamo in servizio permamente effettivo del professor Mario Monti alla voglia di rassicurazione, pacificazione, normalizzazione incarnata dal politico Enrico Letta e addirittura ben simboleggiata nelle ultime ore dalla foto tranquilla del premier uscente che passeggia abbracciando il figlio per le vie di Roma.
Il problema è che una soluzione politica funziona fintantoché risponde genuinamente alla sua vocazione originaria. Per esempio, l'esperienza politico-governativa del professor Monti è andata via via esaurendosi quando lo stesso Monti ha via via dismesso i panni del super operatore chiamato ad affrontare con mezzi di emergenza una grave emergenza per iniziare a indossare i panni del politico teso a gestire l'esistente.
Allo stesso modo, l'esperienza politico-governativa di Enrico Letta è andata via via esaurendosi quando, non per colpa di Letta ma semmai per decisione del suo partito, il Pd, l'originaria causa scaturente del governo delle larghe intese è stata azzerata dalla decadenza (celere) da senatore di Silvio Berlusconi.
Sfumata la sensazione di emergenza, declinata la forza di Monti. Cancellata la scommessa di pacificazione nazionale, declinata la forza di Letta. Il tutto mentre invece emergeva la forza di Matteo Renzi.
Ecco, a quale vocazione del pendolo nazionale corrisponde Renzi? Alla sensazione di emergenza o alla voglia di normalizzazione? A mio avviso, al primo dei due poli.
Il governo Letta, persa la vocazione originaria, si è arenato nelle sabbie dell'immobilismo. La ripresa dunque tardava, fiacca e incerta, mentre il semestre italo-europeo si avvicinava, assieme all'Expo e alla paura di non salire sul treno della crescita europea – si spera – forte, prossima e ventura. Le elezioni? Quasi impossibili, dopo la sentenza (proporzionalista) della Corte costituzionale.
Dunque, la carta dell'emergenza, la carta del leader più forte, Matteo Renzi. Ora quindi spetta al sindaco di Firenze aderire perfettamente alla vocazione che lo sta conducendo antitempo, e forse anche in modo non previsto e poco auspicato, a Palazzo Chigi. Ci arriva quasi come ultima speranza politica di fronte alla paura del declino. Se così ci arriva, deve fare tutto l'opposto di ciò che farebbe un leader chiamato a rappresentare la normalizzazione.
E l'opposto della normalizzazione è: velocità, governo dei migliori, nessuna estenuante trattativa con i partiti, tempi e modi rivisti al ribasso, nel senso di "Adesso!", rispetto alle fumisterie partitocratiche, cinica comprensione verso le naturali esigenze delle forze politiche, ma anche schietta corsa al rappresentare la sana richiesta di risposte immediate che gli italiani avanzano in maggioranza ora che il pendolo psicologico della nazione (ri)batte sul tasto "emergenza", e giochiamoci dunque il meglio. Correre, non cincischiare, "effetto vu vu vu". Perfino ovvio.