Nel fine settimana del 19, 20 e 21 settembre sono stato a Spotorno, nel golfo dell’isola, delle albe e dei tramonti, sul molo Sirio, a qualche pagaiata dallo splendido isolotto, dove assieme a Samanta Chiodini, Pietro Galeotti ed Emma Lanfranchi ho curato e animato il Premio Internazionale Spotorno Nuovo Giornalismo organizzato dal Comune, in particolare dal vicesindaco Franco Riccobene, con il sostegno della Regione Liguria, che ha inserito l’appuntamento tra i grandi eventi regionali.
Quest’anno Carlo Verdelli, già direttore di Sette, Vanity Fair e Gazzetta dello sport, oltre che manager Conde Nast e scrittore autore di “I sogni belli non si ricordano” (Garzanti), ha vinto il premio #sbarbaro, il riconoscimento dedicato al giornalismo che va oltre i confini; mentre Annalena Benini, sublime firma del Foglio quotidiano, ha vinto il premio #primizie, riservato al giornalismo che innova.
Molte emozioni. Vero. Soddisfazioni, anche. Ma quello che mi sento di condividere qui è un foglio di appunti mal presi ma ben presenti.
Il primo. Parlando di informazione, le parole più ripetute e/o più colte sono state “identità”, “storia”, “bellezza”, infine “discorso”. Stefano Bartezzaghi, in particolare, ha messo ordine tra i suoni e i concetti che mi ronzano da tempo in testa, nella testa di un giornalista amante dei giornali e timoroso per la loro sorte, come tutti coloro che lì lavorano e come racconta il Financial Times. La sintesi di Bartezzaghi, editorialista di Repubblica, scrittore e docente di semiotica, è appunto la parola “discorso”. Ho sempre pensato e penso che finché ci sarà un bambino che chiede: “Papà, raccontami una storia”, esisterà l’informazione ed esisterà il giornalismo. Nella frase “papà, raccontami una storia” c’è l’affermazione di un’identità riconosciuta – “papà” – e la richiesta di un piacere da soddisfare – “raccontami una storia”. Ma bastano queste due cose – un giornale con un’identità e un racconto fatto pezzo dopo pezzo – per definire il successo di un prodotto dell’informazione? No. Il papà è l’identità, l’io, il raccontare la storia è l’azione, ma perché il tutto funzioni e duri (a lungo) ci vuole la capacità di contemplare l’altro nell’azione e questo accade nel concetto di “discorso”. Io racconto una storia in un modo o in un altro a seconda dell’interlocutore che ho davanti e lo faccio preparando un discorso, facendo un discorso a e con qualcuno. Un giornale ha successo se e quando ci riesce, se e quando fa un discorso. E’ una tesi chiara. Limpida. Utile.
Il secondo appunto. Venerdì 19 mattina, assieme a Felice Rossello, autore tv e docente, e Federico Sarica, direttore di Rivista Studio, ho parlato con più di cento ragazzi delle scuole di Spotorno, la quinta e le tre medie, e ho scoperto che la velocità dei cambiamenti delle nuove tecnologie è davvero tale che non si è ancora esaurito il successo di un nuovo “ninnolo” multimediale che già s’avanza il prossimo, grande fenomeno. Come comunicate con gli amici? Quali social network utilizzate? Come condividete le vostre cose, ragazzi? Mi aspettavo una e una sola risposta: “Facebook”, ho avuto una e un’altra sola risposta “Whatsapp”. I ragazzi, anche per evitare lo sguardo occhiuto dei genitori, che ormai sono tutti su Facebook, si ritrovano nei gruppi, a volte sterminati, su Whatsapp: sono i nuovi canali verticali delle loro esistenze. Sono nello smartphone, ma a prova di intrusioni. Da annotare.
Il terzo. “I confini” erano il tema della tre giorni, i confini dell’informazione abbattuti dalle tecnologie, dalla commistione di generi e dai multipli ruoli che agli operatori dell’informazione sono assegnati. Ecco, i confini. Pochi giorni prima di “Spotorno subito” mi è capitato di leggere, grazie a Goodmorning.it, che negli Stati Uniti d’America si va diffondendo una teoria portata avanti e studiata e testata da un gruppo di economisti che dice: se fossero aboliti tutti i confini (tra gli stati), il Pil del mondo raddoppierebbe e la povertà si ridurrebbe fino quasi a scomparire. Non ho la presunzione né la possibilità tecnica di valutare la credibilità di una simile teoria, ma mi piace pensare che potrebbe essere applicata al futuro e al successo possibile nell’avvenire dell’informazione: abolire i confini, tra i mezzi, tra i generi, tra gli scopi, per preservare la qualità e la credibilità e la sostenibilità economica dell’informazione stessa. Non so (ancora) quanto sia vera questa tesi, so che mi piace moltissimo.