Oggi il Financial Times pubblica un lungo articolo di Yuval Noah Harari (storico dell’umanità, non mi viene definizione migliore) per “denunciare” i rischi di una nuova ideologia e/o religione: “il Dataismo”. “I sostenitori della visione dataista – si scrive – percepiscono l’intero l’intero universo come un flusso di dati”. Facendo poi un parallelo tra (presunte) ideologie si insiste: “Proprio come i sostenitori del capitalismo e del libero mercato credono nella mano invisibile del mercato, così i dataisti credono nella mano invisibile del flusso di dati”. Qual è il problema? Che “una volta che il sistema dei Big Data mi conosce meglio di quanto io non conosca me stesso (grazie alle mille azioni quotidiane che faccio – scrivere mail, pagare una bolletta, correre al parco eccetera – senza neanche pensare al fatto che sto producendo un flusso di dati che do in pasto a uno e più algoritmi, ndd), l’autorità slitta dagli esseri umani agli algoritmi”. Appunto. “Big Data could then empower Big Brother”.
Questo è già accaduto nella medicina, sostiene il Financial Times. Perché già ora le più importanti decisioni di questo tipo nella nostra vita sono prese sulla base di calcoli fatti da computer che “ti conoscono meglio di te stesso”. Il FT ricorda, per esempio, la decisione di Angelina Jolie di sottoporsi a una duplice mastectonia contro il rischio (l’87 per cento di probabilità) di sviluppare, non ora, ma in futuro, un cancro al seno. Ciò che già ora avviene nella medicina sta per avvenire anche in altri campi, partendo dalle cose più semplici.
Per esempio: come scegliete un libro? Un tempo andavate in una libreria e gironzolavate, ora aprite il vostro Kindle e la mano invisibile del flusso dei dati vi suggerisce per esempio il volume X: anche se non lo sapevate, stavate cercando proprio quello. E lui, il dato, lo sa. E presto, con il riconoscimento della mimica facciale, “i libri leggeranno voi mentre voi leggerete i libri”. Arriveremo a lasciar decidere agli algoritmi perfino chi vogliamo sposare perché gli algoritmi, conoscendoci, saranno in grado di indurre in noi le emozioni che vogliamo provare. Secondo i dettami del “dataismo”, “la Quinta di Beethoven, una bolla di Borsa e un virus influenzale sono soltanto tre patterns di flussi di dati che possono essere analizzati usando i medesimi principi e strumenti di base. E questa idea è molto attraente”. Tutto è rete e tutto è Big Data.
Ma come spiegare la coscienza in termini di data-processing? Ecco, appunto, ma non importa. Come non importa? “Anche se il Dataismo si sbaglia riguardo alla vita, può comunque conquistare il mondo”. E se questa cosa non ci piace? L’unica soluzione – spiega Yuval Noah Harari – è conoscere sempre di più e sempre meglio noi stessi. Perché se il Dio algoritmo è lì lì per sopraffarci, la ragione è essenzialmente che “la maggior parte degli esseri umani a mala pena si conosce”.
Quindi il libro bianco del Dataismo può avere un lieto fine: usare i dati per conoscere se stessi e conoscere se stessi per usare bene i dati. Bella sfida.