In America lo chiamano “the underwear bomber”. E’ il terrorista che il giorno di Natale è salito su un aereo con l’esplosivo nascosto nella biancheria intima e che ora sta collaborando con la sezione antiterrosimo dell’Fbi. Ci sono conferme ufficiali. Collabora, dunque si dissocia? Difficile dirlo. Informazioni top secret, però “utili”, a giudicare dai primi commenti che trapelano. Le fonti della stampa americana, The Politico in particolare, ammettono che certamente il detenuto speciale del carcere di Detroit è allettato dai benefici legali, come una riduzione della pena, che potrebbe trarre dalla giustizia ordinaria americana. La decisione di Umar Farouk Abdulmutallab rafforza sui mass media la linea scelta dall’Amministrazione Obama di perseguire i terroristi per vie ordinarie. Ma pone un interrogativo più generale, tra il psicologico e l’ideologico. Si può uscire da al Qaida? Esistono e, se sì, quanti sono i membri della rete del jihad che si tirano indietro, che disertano, che si dissociano, un po’ come succedeva ai tempi del terrorismo brigatista rosso in Italia o in Europa in generale? O come accade in certi casi con le mafie? Fino a oggi gli osservatori del fenomeno terrorista e l’intelligence hanno spesso speso le loro energie alla ricerca della comprensione del perché uno si fa terrorista (perché ci odiano?); ora si inizia a indagare il lato umano della ferocia jihadista, anche dal punto di vista di chi decide (e perché?) di smettere i panni del binladenista. Un’indagine su questo tema è stata svolta da Michael Jacobson, già consigliere del Dipartimento al Tesoro ed esperto di terrorismo, per il Washington Institute (www.washingtoninstitute.org). Molte interviste, mesi di studio, 25 membri delle varie reti jihadiste analizzati nelle loro storie e nei loro racconti. Per scoprire che esistono eccome quelli che sono usciti dal gruppo. E che cosa possono imparare i governi dalle ragioni di queste defezioni? Famiglia, cioè affetti, e prigione, cioè perdita della libertà, contro l’idea diffusa che la detenzione alimenti la radicalizzazione, sono due tra le cause più sottolineate come origine del gran ripensamento. E’ capitato ad al Qaida, a Hamas a Gaza, alla Jemah Islamiyah nel sud-est asiatico. E’ una lunga storia di defezioni. Il caso più noto è quello dell’ex capo della Jihad islamica egiziana, Sayyid Imam al-Sharif, “anche noto come Dr. Fadl”, che ha scritto pure un libro contro al Qaida. Sheikh Salman bin Fahd al Awdah, leader religioso incarcerato dai sauditi e punto di riferimento dell’azione di Osama Bin Landen, è andato perfino in tv ad attaccare la Rete del terrore: “Quanto sangue…!”. Di defezione in defezione, Bin Laden ha perso anche il suo autista personale, diventato addirittura testimone d’accusa davanti alla giustizia americana. Perfino l’attacco dell’11/9 contò due “disertori” sauditi che scelsero di mollare, una volta lasciato il campo di addestramento afghano, all’ultimo momento e dopo essere stati selezionati per l’azione. Comprendere le ragioni degli abbandoni, nelle intenzioni dello studio di Michael Jacobson, dovrebbe servire a indirizzare le politiche dei governi verso gli strumenti per indebolire e dividere i gruppi terrostici. Le indicazioni sembrano banali, ma in realtà puntanto al cuore psicologico della jihad. Bisogna far sapere che uscire dal gruppo è possibile, vanno svelate le ipocrisie delle leadership terroriste, vanno enfatizzate le distinzioni ideologiche tra i gruppi, va spiegato che, nonostante una fama “affascinante” della vita da guerrigliero, la realtà è ben più squallida. Messaggi di spin, di informazione mirata. E poi ricerca di alleati. Le famiglie dei terroristi possono avere un importante ruolo nel far cambiare idea al parente che sbaglia. E infine, conclude Jacobson, “mentre le prigioni vengono spesso viste come incubatrici” del terrorismo sono invece “incubatrici di opportunità”. Possono amare la morte più di quanto noi amiamo la vita, come recita il motto di bin Laden, ma a volte amano la loro famiglia e la libertà personale ancora di più.
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