Quando nessuno ha paura che intervenga lo sceriffo

Uno dei principi ordinatori dell'oriente vicino in particolare e degli equilibri mondiali in generale ha un indirizzo conosciuto, ma la corrispondenza, di questi complicati e drammatici tempi, ritorna al mittente. L'indirizzo è 1.600 Pennsylvania Avenue, Washington, Casa Bianca. Quello che sta accadendo in Siria, più di centomila morti e le stragi dei bambini – con gas o no sempre bambini indifesi sono – e quello che sta succedendo in Egitto – una complicata transizione tra militari, partiti islamisti e piazze contrapposte – sono i due più preoccupanti frutti di una carenza conclamata di leadership e di strategia, una carenza oggi tutta statunitense. Ora non si sa che cosa vogliono e con chi stanno gli Stati Uniti d'America nell'oriente vicino. Problema serio. Può sembrare anche un bene – prima il lamento collettivo era che Washington si intrometteva troppo perché c'era di mezzo il petrolio – ma in realtà in ogni società complessa – e quale società è più complessa del mondo? – servono principi ordinatori e l'Amministrazione americana, la potenza americana, svolge da almeno un secolo questo ruolo. Oggi no. Questo vuoto è stato anche provocato da una trasformazione strategica: lo shale gas, il nuovo modo per estrarre energia dal sottosuolo, sta rendendo autonomi gli Stati Uniti rispetto ai petrodeserti mediorientali. Così nel mondo ci sono e forse ci saranno sempre meno stelle e strisce in giro. Siamo sicuri che sia una buona notizia sempre? Il presidente Barack Obama, al netto di un Nobel vinto sulla fiducia (ed è poco o nulla), al netto dei risultati postumi della strategia del predecessore George W. Bush (e non è poco) – cioè l'innesto di due possibili modelli di transizione complicata verso la democrazia in Afghanistan e in Iraq, come sprone e tasselli di un delicato ma innovativo effetto domino che ha comunque portato alle cosiddette "primavere arabe" -, al netto della cattura e della uccisione di Osama bin Laden (ed è molto, moltissimo, soprattutto per gli americani), il presidente Obama, si diceva, non ha certo un bilancio di politica estera degno della sua fama e fascinazione mondiale. Anzi. Sembrava poter essere il nuovo John Kennedy, temeva di finire come un Richard Nixon, rischia di assomigliare sempre più a Jimmy Carter, dicono i suoi più severi critici. Con più di una ragione al loro arco. Comunque, più che la carenza di risultati – il caos nel vicino oriente, la potenza cinese in netta ascesa, le arroganze e le sicumere putiniane, la lontananza europea, gli scricchiolii turchi, la ripetitività israelo-palestinese sono lì sul tavolo dal discorso del Cairo in poi, tra i soliti stop and go della corsa nucleare nell'Iran degli ayatollah -, più che il bilancio molto magro quel che dovrebbe preoccupare le cancellerie internazionali è la latitanza di una strategia o almeno di una scala di valori e interessi geopolitici fissata dalla Casa Bianca. L'incertezza globale sulla strategia e sulla scala di interessi di Washington ha indebolito in modo grave qualunque potere di deterrenza, soft o hard che sia, che gli Stati Uniti hanno sempre, aggiungerei per fortuna, garantito durante ogni crisi mondiale. Quando nessuno ha paura che intervenga lo sceriffo, nei saloon le risse sono continue e sempre più pericolose. Certo, sarebbe bello vivere in un mondo che non ha bisogno di sceriffi, ma intanto quei bambini che non hanno la forza per fermare la forza degli altri, che sia sotto forma di gas o no poco conta, come fanno? Servono principi ordinatori che si arroghino il potere quasi monopolistico di usare la forza per difendere, anche soltanto con la minaccia di intervenire, per esempio, quei bambini siriani che la forza non sanno nemmeno che cosa sia. L'idea di una no-fly zone per ragioni umanitarie è il minimo indispensabile? Presto.