Una delle cose forse ingiustamente sottovalutate della comunicazione del Partito democratico è il continuo, ripetuto, ostentato e orgoglioso riferirsi al Pd stesso in termini di "comunità". E' una parola, per esempio, che ha usato ieri il presidente del Consiglio, Enrico Letta, alla direzione. Dunque è parola che pesa ed è soppesata.
Ma è anche un termine usato spesso sia dai leader sia dai simpatizzanti. Il dato non è irrilevante per un motivo particolare. A mia memoria, il Pd è l'unico partito rappresentato in Parlamento come tale che non ha mai rinnegato il termine "partito", salvo la breve parentesi dei "Ds", tanto da tenerselo stretto anche nel nome. Tutti gli altri sono "movimento", "fratelli", "forza", "lega", "scelta", "unione", eccetera.Il termine "partito" non si porta troppo bene di questi tempi. Eppure il Pd lo fa, lo porta.
Il Pd è rimasto partito, ma i tempi hanno comunque delle ragioni che la ragion di partito magari non coglie. Dunque anche tra i democratici è cresciuta la voglia di chiamarsi anche in un altro modo. La scelta caduta sulla parola "comunità" ha di buono il senso positivo, amichevole e amicale, la riscoperta dell'appartenza, la gioia dell'esserci.
Il rischio? Che crei qualche scetticismo in chi vuole pragmaticamente votare un partito ma senza sentirsi parte di un qualcosa. Che faccia sentire "fuori", come un po' esclusi, gli altri, quelli che non si sentono "comunità", ma che magari vorrebbero votare il Pd o il suo leader. C'è insomma una punta di orgoglio che può sfiorare il senso di superiorità o comunque di alterità rispetto alla massa. O no?