Scripta Manent, ovvero la formidabile intervista di Pierre Manent su Brexit e l’Europa

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Il primo agosto Pierre Manent, “discepolo” di Raymond Aron e direttore dell’Ecole des hautes études en sciences sociales, ha rilasciato a Le Figaro un’intervista davvero notevole e da leggere a partire da Brexit per arrivare al futuro dell’Europa. E’ un’intervista notevole perché prova a dare e dà alcune risposte ragionevoli e ragionate e dunque fuori dai luoghi comuni che spesso imbevono le analisi attorno all’Europa. Manent prova a riflettere sul serio sul continuo incespicare della politica sui propri limiti, sui propri (un tempo semplici) passi, come un voto referendario, come la democrazia.

Il titolo dell’intervista è: “Les gouvernants ne nous représentent plus, il nous surveillent”. Il ragionamento prende l’avvio dall’incapacità delle leadership europee di cogliere le paure dei cittadini legate all’immigrazione e dalle misure “di rara imprudenza” prese dalla Germania della cancelliera Angela Merkel che “ha di fatto soppresso le frontiere esterne dell’Unione”. Questo – secondo Manent – ha convinto i britannici che l’unico modo per governare davvero i propri confini fosse uscire dall’Unione.

Ovviamente il processo che ha portato alla Brexit è stato lungo e ha avuto più origini e cause, ma in fondo – dice Manent – quello di David Cameron, l’azzardo da giocatore di poker, non è stato soltanto un gesto imposto dalle pressioni della parte avversa all’Ue, ma anche un momento di (ormai necessaria) chiarezza per rompere quella situazione ambigua che si era via via creata nella relazione tra Londra e Bruxelles, con Londra che cercava di massimizzare i profitti dell’appartenenza all’Unione minimizzandone gli oneri. Quell’ambiguità era già durata troppo a lungo.

Tra l’altro – ricorda Manent – è più che comico prendersela soltanto con gli elettori britannici, visto che in tutta Europa i cittadini da almeno dieci, quindici anni stanno perdendo sempre più la fiducia nei loro governanti e in quelle che si chiamano élites. Basta pensare al voto di sfiducia del referendum nei Paesi Bassi e in Francia nel 2005 o all’avanzata generale dei partiti e dei movimenti cosiddetti “populisti”. “E ogni volta – spiega Manent – c’è la medesima commedia: i membri del consiglio di famiglia europeo si guardano increduli come se l’Arco di trionfo o Buckingham Palace avessero cambiato il loro posto”.

L’atto d’accusa di Manent è preciso e fulminante: “L’Unione europea ci doveva portare all’ultimo stadio della democrazia e ha ricostituito un’oligarchia autocosciente e ben decisa a imporre le sue vedute a un gran massa recalcitrante”. Così quando l’Europa “si interpone tra i governati e governanti, il mandato della rappresentanza lascia spazio a un mandato ideologico. La classe politica non è più responsabile davanti ai propri elettori, ma rispetto alle idee e ai ‘criteri’ europei”.  E quindi “la legittimità politica e la realtà politica si allontanano l’una dall’altra. La classe politica è via via sempre di più ideologica” e di fronte alla propria impotenza nel rappresentare e nel risolvere i problemi della cosiddetta “gente comune” si rifugia nei discorsi dei valori: “invece di governare, s’indigna e ci rimprovera”.

La crisi della capacità di rappresentanza della politica porta ovviamente a una richiesta sempre maggiore di democrazia diretta e questo aggrava ulteriormente la stessa crisi della capacità di rappresentanza della politica. Il corto circuito è garantito. Soprattutto in un periodo di crisi, perché “nessuno può arbitrare un match tra il disprezzo e la rabbia”.

Nella parte finale dell’intervista Manent sconsiglia di pensare a grandi piani di riforma delle istituzioni europee, suggerisce invece di ripartire dal Consiglio europeo perché è lì che l’Europa ha la sua legittimazione perché il Consiglio, composto dai rappresentanti dei governi, “esprime la realtà europea”, mentre la Commissione è “l’elemento per il quale il progetto europeo si è reso odioso”. L’articolo 25 del trattato dice che la Commissione “promuove l’interesse generale europeo e prende le iniziative appropriate a questo fine”. Si presume dunque – dice Manent – che la Commissione conosca l’interesse generale europeo: “Par quel miracle?”. “Il luogo dove si cerca e si formula l’interesse generale europeo non può che essere il Consiglio”, sostiene Manent. Perché “l’errore fatale è stato quello di considerare che ci siano delle istituzioni incaricate di promuovere un ‘interesse europeo’ separato da quello delle nazioni europee così come risulta dal loro concerto”.

Dunque, uscire dall’euro? “No – dice Manent – perché la Francia (ma vale anche per gli altri, nota di Danton) è prigioniera dell’euro… Ma siamo davanti un negoziato politico molto difficile tra le principali nazioni europee. Per questo abbiamo bisogno di uomini di Stato”, non di provocatori.

Ps. L’ultimo libro di Pierre Manent s’intitola “Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident” (Champs Essais, Flammarion, 2012, 424 pagine, 23,40 euro). In italiano “Le metamorfosi della città – Saggio sulla dinamica dell’Occidente” (Rubettino, 2014, 496 pagine, 24,65 euro).