Le ultime notizie dal fronte della guerra delle valute arrivano da Shanghai, dove la preoccupazione del Fondo monetario internazionale per l'emersione di bolle e controbolle, bolle fatte non di aria ma di moneta battuta e sparsa dagli elicotteri, fa da contraltare alle promesse cinesi di una riforma graduale dell'apprezzamento della moneta di Pechino. Resta la scarsa credibilità delle richieste in tal senso giunte da parte statunitense, se le politiche di indebolimento del dollaro a fini commerciali e di immissione della liquidità a fini finanziari resteranno tali.
L'ultimo numero dell'Economist, ricordando che il primo a parlare di guerra delle valute è stato il ministro brasiliano delle Finanze, Guido Mantega, invita tutti a restare calmi. Facile a dirsi, ma ci sono tanti ma. E già si parla di dazi, lo fa perfino il premio Nobel Paul Krugman, e continuano i segnali di nuova Guerra fredda tra Cina e Stati Uniti; del resto da anni gli analisti individuavano nel confronto tra Washington e Pechino la sfida geopolitica del nuovo secolo, dopo il jihadismo.
Lo stesso Economist descrive i tre principali campi di battaglia di questa guerra. Il primo: la Cina non vuole rivalutare lo yuan. Il secondo: le economie dei paesi sviluppati ricominceranno a breve a comprare bond dei debiti pubblici. I paesi in via di sviluppo, invece di far apprezzare le loro valute, comprano – e questo è il terzo campo – le monete degli altri stati, per far sì che non si svalutino troppo, o addirittura impongono tasse sugli acquisti nelle proprie divise. L’Economist conclude dicendo che quel che serve è un ribilanciamento della domanda globale. Vaste programme. Ma unica vera soluzione.
Come attuarla? Per esempio, i paesi più sviluppati potrebbero aiutare la propria domanda interna, invece che immettendo liquidità nelle Borse, tagliando le tasse e lasciando più soldi nelle tasche delle persone. Ma questa politica è molto rischiosa nel breve e contraria alla retorica dell’austerità, retorica da violare semmai, almeno nelle opinioni correnti meno originali, soltanto in caso di piano di stimoli (altra espressione retoricamente abusata e sempre o quasi osannata). Dunque pochi leader politici si sentono di portare avanti idee tese a utilizzare la leva fiscale per ridare fiato alle tasche dei cittadini e respiro ai consumi interni boccheggianti. Però è un peccato. Le immissioni di liquidità attuate e promesse dalla Federal reserve americana danno sì respiro ai mercati, peraltro non in maniera costante, ma finora non hanno avuto effetto sull’economia reale, nel senso della creazione di posti di lavoro, e questo dovrebbe far riflettere, soprattutto alla luce di quanto avvenuto in Giappone negli ultimi quindici anni.
C’è chi parla di “trappola della liquidità”, come il governatore della Fed di New York, Charles Evans. Solo che poi l’unica ricetta che viene sempre proposta è: più stimoli. Una storia già vista. Perché gli stimoli che non hanno funzionato finora, in termini di economia reale, dovrebbero cominciare a funzionare adesso? A dei profami e non esperti risulta invece chiaro che c’è una bella differenza tra immettere liquidità nel sistema (primi beneficiari gli istituti finanziari) e immettere liquidità nelle tasche delle persone, ancora meglio se i tagli fiscali andassero direttamente a beneficiare i lavoratori, riducendo i costi pubblici, nel senso di pegno da pagare al fisco, delle assunzioni private. Nel primo caso si dà linfa ai mercati, ma nel secondo caso si può sperare di dare linfa all’economia. Se il tutto poi fosse accompagnato da vere riforme del mercato del lavoro e delle contrattazioni tra le parti sociali per favorire la produttività delle nostre mature economie, ci sarebbe di che sperare. Che cosa è meglio tra più soldi nel sistema finanziario o più soldi nell'economia reale? Non si era detto che il colpevole della crisi andava ricercato nella finanza più che nell’economia reale?
C’è poi la domanda delle domande e, ovviamente, riguarda l’America. Ma come sta il dollaro, veramente? Oggi il Wall Street Journal ricorda la famosa frase del segretario al Tesoro americano, John Connally, detta agli impauriti europei durante le crisi degli anni 70: il dollaro “è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Dice il Wall Street Journal che questo motto è più o meno quello che Ben Bernanke, presidente della Fed, ha detto al mondo la scorsa settimana, quando ha annunciato nuove misure di immissione di liquidità. Ma, sottolinea sempre il WSJ, è importante anche quello che Bernanke non ha detto: “In quasi 4.000 parole di discorso sull’inflazione, il capo della Fed non ha menzionato nemmeno una volta il valore del dollaro. Non ha mai menzionato i tassi di cambio, nonostante le tempeste nella guerra delle valute… Non ha mai menzionato i prezzi delle materie prime che salgono o l’oro che cresce…”. Il messaggio lanciato dalla Fed, conclude il WSJ, è che la banca centrale americana è tutta concentrata (mid-term è alle porte) sulle esigenze dell’economia americana, le altre economie si adegueranno. Speriamo in bene, dice anche il WSJ.