Ora che il governo Monti parte, mentre stanno per tornare i partiti, si può riflettere su alcune cose legate ai mercati e agli spread.
Tirare la giacchetta allo spread ai fini politici è uno sport molto diffuso in questi giorni, ma è poco divertente e forse anche inutile. Come dimostra l'andamento dello spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi nelle ultime ore, il governo di Silvio Berlusconi non poteva più essere parte della soluzione, ma non era certamente il problema principale, l'unico. Perché?
Quello che sta succedendo sui mercati è una crisi di fiducia nei confronti della tenuta dell'euro. Per capire che cosa sta accadendo ai titoli dei debiti sovrani dei paesi europei bisogna rispondere a una domanda: perché l'America sta vendendo l'Europa?
Da almeno due mesi, basta fare un giro sulle newsletter finanziarie statunitensi o leggere i report dei player di Borsa ma anche i grandi giornali, gli Stati Uniti stanno vendendo l'Europa, nel senso che i grandi investitori americani – i fondi pensione, per esempio – non ritengono più troppo conveniente investire in titoli dei debiti sovrani europei. Dunque hanno iniziato a vendere partendo dai titoli dei paesi più indebitati e meno virtuosi per risalire su su nella graduatoria degli Stati europei. E i francesi che si incazzano, che gli spread ancora gli girano…
E perché gli Stati Uniti vendono? Una prima considerazione può essere fatta sulla governance europea (vedi il Manifesto per l'Europa del Sole 24 Ore) e una seconda, collegata alla prima, sui tempi delle decisioni e delle azioni dell'Unione, che non solo non coincidono con quelli della finanza, ma anzi favoriscono, nel periodo che intercorre tra il problema, la decisione e l'attuazione, manovre di carattere speculativo. Dunque: non esiste il numero di telefono unico dell'economia e della finanza dell'Ue e passa troppo tempo dall'eventuale telefonata decisiva ai fatti.
Negli Stati Uniti, sempre preservando le rispettive autonomie e competenze, se il presidente Barack Obama e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, decidono di agire di comune accordo per proteggere il sistema economico-finanziario, tra la decisione e l'azione passa poco e soprattutto sono in due a dover decidere, a doversi parlare. In più, entrambi sono dotati degli strumenti e dei poteri per agire. Certo, poi, il Congresso vigila e per esempio sul budget e il debito, a volte, sono dolori per la Casa Bianca. Ma la governance è certamente più efficace e chiara.
In Europa invece? Ci sono 27 governi da consultare, 27 opinioni pubbliche di cui tenere conto ed eventualmente da convincere, e 27 capi di stato e di governo da mettere d'accordo, due governi – Commissione e Consiglio – da considerare, quattro o cinque Mr Euro da sentire, un Parlamento, prima o poi, da consultare. Ovviamente tenendo conto delle differenti esigenze di tutti i paesi che hanno calendari elettorali diversi e dunque pressioni delle opinioni pubbliche diverse.
Una volta presa una decisione collettiva bisogna poi sperare – magari anche verificare – che sia attuata in 27 paesi diversi. Mentre la Banca centrale europea, anche quando decide di agire, non ha gli strumenti e i poteri per farlo.
Non è affatto detto che basti stampare moneta, comprare titoli dei debiti sovrani per uscire dalla crisi. Anzi. Ma sicuramente può essere una politica d'emergenza utile di cui non privarsi a priori, soprattutto se le decisioni politiche sono difficili da raggiungere e da attuare, come nel caso dell'Unione europea.
Diciamo la verità, Altiero Spinelli si rivolta nella tomba: abbiamo fatto l'euro, ora per salvarlo dobbiamo fare l'Europa. Prima possibile, sperando che non sia tardi. Oppure: se non riusciamo proprio a pensare in tempi brevi a una vera Unione politica, se resta soltanto la tecnocrazia europea, la Bce, che almeno ai tecnici siano dati gli strumenti per agire.