Che Matteo Renzi non possa fare politica perché fa il sindaco di Firenze e/o che non possa più fare il sindaco di Firenze perché fa politica è una questione assurda e una discussione del tutto inutile. Stavolta Pier Luigi Bersani non appare ragionevole. Forse che teme che l'attivismo renziano stia frenando la restaurazione bersaniana per interposto segretario nel Pd?
Che Massimo D'Alema dica che, anche secondo lui, è bene dividere la figura del segretario da quella del candidato premier è il sintomo che l'ex presidente del Consiglio vuole ritagliare per sé, fin dal famoso incontro con Renzi a Firenze, il ruolo di padre nobile mediatore tra old e new Pd, tra le anime democratiche in subbuglio. Che poi tifi per Gianni Cuperlo alla guida del partito è naturale.
Che il cancelleriere tedesco Angela Merkel e il presidente francese François Hollande auspichino la scelta di un presidente full time per l'Eurogruppo, un presidente in grado di armonizzare le politiche economiche, fa fischiare le orecchie al professor Mario Monti, anche se con un Mario italiano alla Bce un altro Mario italiano all'Eurogruppo è dura.
Che Alfio Marchini parli di discontinuità necessaria a Roma, lasciando intendere di preferire Ignazio Marino a Gianni Alemanno, è significativo ma non decisivo: da tempo gli elettori si fanno ascoltare dai leader più che ascoltarli. Quel 10 per cento di romani deciderà autonomamente e alla fine, comunque, su quell'elettorato ha più presa il sindaco di centrodestra, cui comunque però serve un miracolo.
Che l'esito delle amministrative abbia così rafforzato il governo guidato da Enrico Letta pare un pio desiderio: tutti sanno che, comunque vada e qualunque cosa accada, fino all'autunno poco succede. Che poi le medesime elezioni abbiano segnato l'inizio della fine di Beppe Grillo pare un altrettanto pio desiderio. Che poi il Movimento 5 Stelle rischi scissioni e alla fine sia una parentesi è naturale.