Il "brand personale" è qualcosa di simile a quello che del genio pensavano gli Amici miei: "E' fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione". La rete permette che tutto ciò diventi un prodotto o, meglio, un servizio editoriale.
Nel nuovo mondo della nuova editoria il "brand personale" è anche qualcosa di controverso. Conta la testata, non la firma, si diceva e si dice. I lettori leggono gli articoli, non le firme, si pensava e si pensa. Oggi però c'è un però.
Nell'oceano dell'informazione liquida che naviga in rete c'è bisogno di qualche setaccio, c'è la necessità di avere qualche criterio selettivo. Vedi il successo dei motori di ricerca: è lì a dimostrarlo.
La firma sta assumendo un po' anche quel peso lì, quel ruolo lì. Il successo di alcuni blog (personali) in Italia e fuori è lì a dimostrare che una firma può avvicinarsi al concetto di "testata". Vado sul blog di X perché so che X è molto affidabile e interessante. Lo stesso discorso può valere, a volte, per i grandi giornali.
Un tempo eri un giornalista noto perché scrivevi sul tal o il tal'altro giornale noto. Ora ci sono giornali noti che per innovare o apparire innovatori reclutano giornalisti o analisti diventati noti come "brand personali".
Matthew Ingram, guru delle prossime frontiere del giornalismo, mette assieme due casi simili ma opposti che di recente hanno riguardato il New York Times: Andrew Ross Sorkin e Nate Silver.
I casi sono simili perché nascono in modo simile.
Andrew Ross Sorkin era stato molto, molto bravo, forse il migliore, a raccontare le ore decisive dello scoppio della crisi economico-finanziaria degli Stati Uniti nel 2008 (da leggere assolutamente "Too Big Too Fail", De Agostini) e poi il New York Times lo ha reclutato con il suo blog DealBook. Nate Silver era stato molto, molto bravo ad azzeccare risultati di elezioni politiche (e di sport) incrociando dati e sondaggi e poi il New York Times lo ha reclucato con il suo blog.
Gli esiti però sono opposti. Andrew Ross Sorkin è ormai una colonna del New York Times al punto che ha avuto un bel ruolo pure nel documentario "Page One – Inside the New York Times" sul tema dell'innovazione nei grandi giornali, mentre Nate Silver abbandona il NYTimes per passare a Espn. Le voci sul perché impazzano e s'interrogano, appunto, sul futuro del giornalismo e sul presente dei giornali.
Tra i tanti rumors, c'è l'ipotesi che una redazione tradizionale come quella del NYTimes non abbia mai digerito l'arrivo di un ragazzo creativo e un po' strano come collocazione professionale, nonostante il sito del giornalone di New York abbia goduto di qualche incremento grazie a Nate Silver.
Però perché Andrew Ross Sorkin è riuscito a integrarsi e Nate Silver no?
E' sbagliato voler (sempre) trarre analisi strutturali anche da casi che possono essere soltanto personali. Per esempio, magari Andrew Ross Sorkin si è trovato bene, Nate Silver no. O qualcosa di simile.
Quello che però è sempre più evidente è che la rete crea più, non meno, competizione tra organi di informazione, strumenti di diffusione e criteri di selezione di contenuti meritevoli di lettura. Non esistono più fenomeni scontati, patrimoni consolidati una volta per tutte, carriere predefinite dall'assunzione alla pensione, scale di valori certe e inscalfibili.
(E' forse anche sbagliato enfatizzare sempre come "nuovi" fenomeni in fondo sempre esistiti sotto precedenti spoglie. O vogliamo dire che, chessò, Oriana Fallaci o Indro Montanelli, tanto per fare soltanto due nomi italiani, non erano anche "brand personali"?).