Si sente nell'aria una certa voglia di chiudere con gli ultimi vent'anni. E' innegabile, senza nostalgie. E' naturale, dopo vent'anni non proprio luminosi, con lo sviluppo economico del paese fermo, la spesa pubblica esplosa e le riforme (quasi del tutto) inevase.
Si sente nei risultati elettorali: sia Pd sia Pdl hanno perso milioni di voti, tre il primo e sei il secondo. Si sente sui giornali, nei mercati, per strada. Insomma è come se si stesse creando una sorta di comune sentire che dice: ok, è stato quel che è stato, la storia si occuperà di distribuire meriti e demeriti, ora facciamo un passo avanti verso una nuova Italia.
Non è un sentimento (più) contro qualcuno, questo venticello costante che da mesi scompiglia lo spread, è una constatazione di necessario superamento dello status quo. Lo ha perfettamente compreso Matteo Renzi, ma lo ha correttamente ribadito anche buona parte del mondo lettiano (vedi mozione Boccia).
Non è un desiderio rivoluzionario, perché contiene una dose di ragionevole rassegnazione di fronte alla ribadita natura antiriformista della nostra politica nazionale.
Non c'entra più nemmeno la battaglia contro la cosiddetta "casta", lo sta capendo anche Beppe Grillo.
Si tratta proprio del gaberiano punto esclamativo finale, dopo un ventennio che suona come sprecato: basta! Andiamo avanti.
Ecco, gli ultimi vent'anni, o poco meno, facilmente attribuibili alla prorompente figura di Silvio Berlusconi hanno però un altro innegabile protagonista. Si, perché se il capo della ditta di destra è stato ed è Silvio Berlusconi, il capo della ditta di sinistra è apparso e ancora un po' appare (altro che rottamato!) Massimo D'Alema.
Sono due opposti: l'imprenditore che si fa politico senza voler fare politica, il politico che si fa imprenditore di se stesso senza voler fare impresa; l'accalappiavoti e il regista delle tattiche; la grande promessa riformatrice di destra, svanita di fronte al non fare post-democristiano, e la grande promessa riformatrice di sinistra, svanita di fronte al "non fate!" cofferatiano; il leader per cui la ditta deve diventare un partito e il leader per cui il partito è sempre stata la ditta.
Certo, Berlusconi ha dalla sua (ancora) milioni di voti raccolti, ma D'Alema ha dalla sua una longeva rispettabilità politica. Certo, Berlusconi ha contro di sé una condanna penale passata in giudicato per frode fiscale, ma D'Alema ha contro di sé i malumori sospettosi di molti nel centrosinistra e l'accusa di aver tramato (più volte) contro chi a sinistra i voti li prendeva e per vincere (due volte): leggi Romano Prodi.
Il paradosso è questo. Sono loro che hanno scritto la storia degli ultimi vent'anni, sono loro che devono scrivere il finale. Sono i due opposti. Non si fidano fino in fondo l'uno dell'altro. Non si sono mai fidati. Sono i due nemici che non hanno mai davvero smesso di negoziare per interposti negoziatori negli ultimi vent'anni – ricordate l'idea di Giuliano Ferrara di un D'Alema al Quirinale?, ricordate la bicamerale?, ricordate quel che dice da sempre Pannella: litigano di giorno e si accordano di notte? – ecco proprio loro che sono stati i capi della ventennale ditta possono trovare una soluzione per passare oltre (noi tutti) e passare alla storia (meglio) loro.
Per lusingarli, potremmo dire che quando il gioco si fa duro… Per esortarli, potremmo dire che le decisioni definitive le prendono i capi… Per irritarli, potremmo ricordare che hanno forti legami in comune: l'idiosincrasia per i giornalisti italiani, il desiderio di riformare la giustizia, l'attrazione per il potere, il potere di fare.
In fondo entrambi, dalla costruzione di un lieto fine di questo ventennio, non hanno alcunché da perdere, ma anzi ci possono guadagnare. Si tratta di trovare un patto per creare le condizioni della cosiddetta (finale) agibilità politica di Berlusconi – finché ci sono elettori che gliela conferiscono negarla è ipocrita, oltre che rischioso – ribadendo la necessità di un attività politica (anche nazionale) di D'Alema.
I due che hanno dato vita al ventennio trovino un modo per chiuderlo. E' solo una suggestione, ma suona bene. Il loro ritorno in campo in grande stile sarebbe dato dalla capacità di far calare il sipario; l'acuto finale non è detto che non sia il modo per far dimenticare le stecche passate, no?
Certo, c'è da capirlo D'Alema quando nel formidabile racconto di Pino Corrias sul Fatto quotidiano del 23 agosto dice: "Non mi occupo molto d'Italia, se non tra una vendemmia e l'altra. Mi occupo di grandi questioni internazionali, diciamo". Ma non era lui che voleva un paese normale? Ecco, con una bicamerale in tre giorni e, come dice Pannella, tre notti potremmo perfino sperarci. Perché no?
Ps. “Da uomo della strada considero D’Alema una persona molto intelligente. E poi è molto simile al Cavaliere… non so quanto sarebbero contenti di questo paragone ma entrambi non fanno bizantinismi. Se devono dare un giudizio tagliente, lo danno”. Così il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, si espresse a proposito della candidatura alla presidenza della Repubblica di Massimo D’Alema, intervistato da Fabio Fazio a "Che tempo che fa". Correva l'anno 2006, nel mezzo del cammin di questo ventennio.