Stefano Di Michele aveva sempre due cose con sé: il sigaro e l’ironia (non in quest’ordine), i due gatti avrebbe voluto, ma li lasciava a casa, anche per ragioni caratteriali (di Borges). Non condivideva quasi nulla delle idee politiche che uno che si dice liberale ha, eppure era il più liberale di tutti. Si diceva comunista come si diceva di Mentana come si diceva credente: era una questione di cosa è casa. Non credo abbia mai giudicato, certamente non ha mai condannato, nonostante il suo amore e il suo rispetto per le istituzioni, la divisa, la toga. L’ordine lo fissa lo Stato, bene, benissimo; la cultura la crea la tradizione, bene, benissimo; a lui piaceva la comprensione delle persone.
A Stefano Di Michele non potevi chiedere un pezzo, potevi soltanto cogliere o no la sua suggestione, il ricamo attorno all’essenziale che lui sapeva fare per raccontare come l’essenziale non lo sia poi così tanto e così sempre. Lui, seduto sul gradino che porta al corridoio che porta alla sua stanza che porta al sigaro acceso, sommerso da giornali di carta che più di carta non si poteva, buttava lì una battuta orecchiata in tv, mezza riga letta in un’intervista, tre quarti di sorriso sornione: il pezzo c’era già. Tu non gli chiedevi un articolo, tu gli lasciavi uno spazio. Per lui andava sempre bene, 4 come 180 righe, per lui l’importante è che fosse uno spazio bianco aperto, non a percorso, tanto meno a traguardo, obbligato.
Era capace di leggere una decina di volumi sulla Roma del ‘700 per fare il ritratto di uno scrittore polacco del ‘900. Tu a volta non capivi o non sapevi perché, ma lui era certo di trovare la chiave del pezzo proprio su quel polveroso tomo pregiato recuperato su una scalcagnata bancarella di Trastevere. La sua ironia era talmente forte, la colonna vertebrale della sua professionalità, che per coltivarla davvero e sempre un po’ fingeva e un po’ si vergognava di conoscere e di capire la politica d’oggi; si rifugiava nella storia o nel costume partitico-parlamentare perché l’ironia merita protezione.
La sua più grande vanteria, oltre alla famiglia e agli amici, era questa: farsi obbedire da Borges, il gatto più gatto del mondo, e farlo andare d’accordo con Camilla, la gatta più sorella minore del mondo. Era grande perché parlava sorridendo con l’ultimo studente di giornalismo arrivato in redazione al Foglio e con l’ultimo presidente della Repubblica con lo stesso sorriso, lo stesso calore, la stessa arguzia, le stesse parole e lo stesso sigaro.
A Ste’, raccontami ancora Veltroni, rispiegami D’Alema, poi discutine un po’ con quel liberale di Fabrizio. Vi penso. Preghiera.