Qualunque decisione prenda o abbia preso, il travaglio di Michele Emiliano, magistrato e governatore della Puglia, è presto spiegato e dunque comprensibile. Emiliano aveva fin qui costruito ben bene, dal suo punto di vista, il suo profilo di unico, vero contendente possibile alla guida del Partito democratico e perfino del centrosinistra nella sfida a Matteo Renzi.
Innanzi tutto, nasce non ostile a Renzi, anzi renziano, come ha ricordato egli stesso sabato scorso all’iniziativa della sinistra dem, con Enrico Rossi e Roberto Speranza, peraltro scusandosi subito dopo platealmente proprio per il suo originario sostegno all’ex premier. Fin dai tempi del referendum sulle (non) trivelle Emiliano ha mostrato chiari segni di ambizioni nazionali, anche se magari in televisione dava di “troll” al giornalista che porgeva alcune domande in tal senso.
Il ruolo di governatore, poi, dopo essere stato anche sindaco, lo proietta(va) bene e direttamente in un possibile ruolo di governo almeno del partito, del Partito democratico. C’è poi la delicata e sentita questione meridionale, di cui lo stesso Emiliano incarna naturalmente il ruolo del leader simbolo. Inoltre, atout non di poco conto, non viene dalla Ditta bersanian-dalemiana. E’ un homo novus, non un prodotto del partito scuola e delle scuole di partito.
“Dalemiano mai”, continua a ripetere, dando prova di perspicacia nel comprendere che cosa al pubblico della sua parte garba e che cosa meno. Ora, però, dover uscire da un grande partito per costruirne uno nuovo (più piccolo) perdendo il vero terreno di sfida con Renzi sul piano del grande partito è più rischioso e meno ambizioso.
Dentro a un partito di sinistra sinistra, egemonizzato dalla Ditta, per Emiliano fare l’Emiliano sarà più difficile di quanto non sia o non fosse nel Pd. Emiliano lo sa, per questo ha vissuto e/o vive un travaglio. Insomma, voleva essere lui l’Andrea Orlando, lo sfidante da sinistra di Renzi, rischia di ritrovarsi l’extraterrestre atterrato sul pianeta neoDs.