Ho appena finito di leggere un bel libro, lo ha scritto Claudio Martelli, già numero due del Partito socialista italiano e perenne promessa della politica nostrana durante gli anni del craxismo. S'intitola "Ricordati di vivere" (Bompiani).
E' un bel libro perché è il tentativo di scrivere un'autobiografia politica, una sorta di romanzo di formazione intellettuale e parlamentare con lo scrittore come protagonista. E' un bel libro perché è scritto bene, fila via liscio con accostamenti originali di pubblico e privato, aggettivi e sostantivi, verbi e avverbi. Non è poco.
E' un bel libro perché ti accompagna, mano nella mano, nello scoprire le idee dell'autore, con i fatti e i sentimenti magari un po' contestualizzati, a volte un po' trattati mettendo le mani avanti, ma mai nascosti. E' un bel libro perché non fa prevalere le tesi personali, che pure ci sono eccome, sul racconto collettivo, anche se ribadisce con forza i chiodi fissi dell'esperienza politica dell'autore.
Non ci sono molte ammissioni di colpa e/o di errore, ma non è obbligatorio scrivere un libro simpatico per scrivere un buon libro.
Cade poi al momento giusto, il libro di Martelli, racconta l'ultima parte della prima Repubblica mentre molti parlano dell'ultima parte della seconda Repubblica, in modo da favorire paragoni, analisi, riflessioni.
Non è un libro rancoroso, nonostante le naturali teorie giustificazioniste di alcune proprie scelte. Non è un libro nostalgico, nonostante la passione dell'amor politico in parte tradito dai fatti. Non è un libro rivendicazionista, nonostante sia chiaro che l'autore, in fondo, va proprio fiero della sua esperienza, tutta, tanto da dedicare molto tempo della sua vita recente per metterla nero su bianco.
C'è la politica alta e quella bassa. Ci sono gli amici e ci sono i rivali. C'è soprattutto la considerazione che l'evoluzione delle idee e delle persone siano processi inestricabili tra loro, ovviamente paralleli, naturalmente da accettare. Sì, c'è l'idea di fondo che almeno allora c'era la politica, nonostante tutto ciò che di quella politica non funzionava.
Per esempio, a pagina 55 si dice: "Adesso, più ci ripenso, più mi convinco che quella vocazione politica che è durata più di trent'anni, che ha preceduto, accompagnato e scavalcato ogni altra esperienza umana e di lavoro e che dura ben oltre la fine della stessa professione politica, altro non era, altro non è, che questo bisogno di capire e stare insieme, di comunicare, liberi e pari, accettando naturali gerarchie, affrontando necessari contrasti; di stare insieme per capire le cose del mondo, per vivere una vita vera difendendo quel che merita di essere difeso, cambiando quel che deve essere cambiato nella dimora che abbiamo ricevuto in sorte. Questo mi sembra quel che vale e quel che dura della politica, la sua umanità, la politica perenne, più forte del potere, più importante delle idee".
Ecco, una semplice e chiara definizione della politica e della vita, pubblico e privato: vivere in un certo modo come forma di partecipazione sociale. Giusto, no?