Lo so, bisognerebbe continuare a parlare dell'editoriale di Ezio Mauro, bisognerebbe continuare a decrittare il suo commento nell'attesa del Travaglio mattutino di domani, però oggi su Repubblica c'era anche un'intervista di Massimo Giannini a Pierluigi Bersani.
Il segretario del Partito democratico dice essenzialmente una cosa, la stessa che sostiene da tempo, la linea che ha dato vita al patto di sindacato neoprogressista che guiderà il partito fino alle elezioni: dopo Monti non c'è Monti, ma un governo di (centro)centrosinistra, urne permettendo e dalle urne passando. Legittimo, perfino ovvio, come auspicio e come progetto.
C'è poi un avvertimento, sebbene subito allontanato: "Le elezioni anticipate sono un'elucubrazione dannosa", sul fatto che il voto non sia più un'ipotesi da escludere: "A Monti chiedo un cambio di passo. Non sono d'accordo su come stanno andando le cose. E' ora di riscrivere l'agenda. Per noi progressisti è il momento di rompere l'avvitamento tra austerità e recessione".
Bersani avanza poi alcune proposte concrete e promette un'imposta sui grandi patrimoni "per alleggerire l'Imu". Il programma della coalizione non c'è ancora ma ci sarà a breve – ovviamente in settembre quando tutto succederà? – e non sarà di 281 pagine come in passato, ma di 10/15 punti. Ottimo, meglio la sintesi.
Intanto per capire come intende riscrivere l'agenda il Pd negli ultimi giorni è stato molto interessante seguire il dibattitto aperto da un'intervista di Susanna Camusso all'Unità: lo Stato torni ad avere un ruolo molto attivo nella politica industriale e, pare di capire, anche direttamente nelle industrie in crisi e/o strategiche.
Il dibattito è stato fatto con interviste e interventi, dove per la verità, come è naturale che sia, lo spirito più "progressista" e spinto verso un ritorno alla presenza forte dello Stato nell'economia era più nei titoli che nelle parole e nei ragionamenti sottostanti. Però un po' fa riflettere, tanto che Stefano Menichini su Europa cerca di rassicurare tutti: non torna l'Iri, nemmeno a sinistra.
Resta il fatto che il dibattito – interessante, ripeto – ha un sapore antico. Perché non cerca di trovare nuove ricette nell'innovazione delle precedenti, ma ripropone una politica economica passata e peraltro la ripropone più nella forma – lo Stato agisca – che nella sostanza – lo Stato agisca, ma per fare che cosa?
Ci sono altri due pensieri che vengono in mente sfogliando gli ultimi numeri dell'Unità diretta da Claudio Sardo, giornale molto ben fatto e con una delle miglori sezioni culturali, e questi due pensieri fanno riflettere sul come sia più comodo promettere protezione piuttosto che innovazione di questi tempi e in campagna elettorale.
Primo, lo Stato italiano in realtà non ha mai abbandonato una reale forte presenza nell'economia e anche in molte aziende. Secondo, ci si ricordava di Bersani come del ministro delle liberalizzazioni e in effetti nell'intervista del leader del Pd a Repubblica di oggi come in quella di qualche tempo fa a Fabrizio Forquet del Sole 24 Ore i toni da dirigismo irista non ci sono.
Certo, però, tempo è passato da allora e oggi, come il segretario del Pd dice spesso, a Bersani tocca organizzare il suo campo e vincere le primarie in vista della sfida elettorale: anche in questo caso è più comodo farlo su temi e linee care alla tradizione e rodate nel tempo, sebbene non con effetti sfolgoranti per la nostra economia, anzi.
Ecco, dunque, il ritornare di quella parola: "progressista", la ritrovata diffidenza a usare l'altra parola: "liberale" e le sottolineature di ricette "più di sinistra". Poi il governo sarebbe un'altra cosa? Poi l'eventuale alleanza con il centro smusserebbe gli angoli più "progressisti"? Probabile.