Ma perché a Matteo Renzi riesce tutto sommato facile tenere a bada la compagine governativa, gli alleati di coalizione (vecchi e nuovi, palesi e un po’ occulti) e la maggioranza parlamentare, e invece ha spesso, anzi, sempre, problemi con il suo Pd? Più facile fare il premier che il segretario? Più capaci gli esponenti dell’inner circle di governo, meno i luogotenenti scelti per il partito? Tutte queste domande, in fondo, fanno parte di un’unica possibile, completa risposta, ma la spiegazione più interessante, forse, sta in una – diciamo – innocua frase di Massimo D’Alema di qualche giorno fa. E ovviamente sta tra le righe.
Dice D’Alema che il partito sta deperendo: “Non è un fatto positivo che premier e segretario Pd siano la stessa persona”. Ecco, siccome il bersaglio grosso – via Renzi da Palazzo Chigi – non è alla portata, s’inizia a lavorare all’obiettivo secondario: via Renzi dal Pd. Il sogno recondito della minoranza antirenziana è quello di (ri)prendersi almeno “la Ditta” e dunque bisogna rendere difficile la vita del premier e dei suoi all’interno della stessa.
Perché poi, in fondo, la stagione congressuale del 2017 non è poi così lontana e in mezzo ci sono delle elezioni amministrative importanti, voti che potrebbero giustificare frasi del tipo: “Ecco, visto, il Pd sta deperendo sul territorio… serve un leader ‘più tradizionale’ alla guida del partito, uno alla Enrico Rossi, per esempio”.
Certo, nei sogni della minoranza, prima si ottiene la guida del partito e prima s’inizia il logorio della leadership renziana al governo, come ai vecchi tempi di Prodi, D’Alema, Veltroni, ma questo Renzi lo sa bene. Per questo motivo non rinuncerà alla sua assicurazione sulla vita del governo, mantenendo la guida del partito, pur sapendo che il prezzo da pagare sarà fatto di estenuanti e continue trattative interne al Pd sul modello di quanto avvenuto da ultimo sulla riforma del Senato.