Che cosa è successo? L’inversione dei fattori riformisti da Clinton a Renzi

Renzi interviene al Panel della Clinton Global Initiative (Foto Palazzo Chigi)

Renzi interviene alla Clinton Global Initiative (foto Palazzo Chigi)

L’Italia ha bisogno di riforme economiche, politiche e istituzionali. La prova di questa necessità sta nella semplice constatazione che il nostro paese cresce poco o nulla da quasi vent’anni, i nostri governi durano meno degli altri esecutivi europei e le nostre maggioranze parlamentari sono instabili e molto variabili: sovente si scompongono e si ricompongono a prescindere dal pensiero espresso dagli elettori.

Per i cittadini elettori, come ha ricordato di recente l’Economist, le riforme economiche, nel senso della crescita, vengono ovviamente prima delle riforme politiche e istituzionali. Per la politica, spesso, vale il viceversa, in quanto le riforme economiche hanno o rischiano di avere sempre un prezzo (elettorale) da pagare, una categoria da scontentare, una controparte riottosa da convincere.

La scommessa (tattica) di Matteo Renzi è stata in sostanza quella di dire agli elettori: “Il mio governo ha fatto alcune riforme dell’economia, ma per essere un paese al passo con i tempi ha bisogno di riforme politiche e istituzionali che poi rendano possibili anche altre e più profonde riforme dell’economia, della giustizia, della società”.

L’azzardo renziano, dunque l’errore, visto l’esito negativo della scommessa, è nato da un’inversione dei fattori. In un paese tendenzialmente refrattario alle riforme profonde e ostile all’idea del leaderismo di governo (mentre sul leaderismo di lotta gli italiani sono in maggioranza molto più di bocca buona), prima vanno costruiti un vasto consenso e una solida fiducia nei confronti di un progetto riformista, con una sostanziale e duratura crescita economica, e poi lo stesso progetto va varato, sottoposto al giudizio elettorale e infine, se approvato, attuato.

Se l’Italia crescesse almeno ai tassi della Spagna e se gli italiani avessero molte ragioni concrete per essere davvero ottimisti sul futuro, il referendum sulla riforma costituzionale sarebbe andato in direzione opposta.

In altre parole, quei “conservatori” degli italiani possono anche diventare riformisti, ma soltanto se si fidano molto di chi propone loro un progetto di riforme. E per fidarsi molto di qualcuno la maggioranza degli italiani vuole vedere risultati concreti sul campo che ritengono prioritario: l’economia.

Questo, a mio giudizio, dice il voto di domenica 4 dicembre 2016. Ma lo diceva anche il democratico Bill Clinton, mentore di una certa stagione riformista degli anni Novanta: “It’s the economy”.