Con tutto il massimo rispetto per Roberto Speranza (ecco perché Pier Luigi Bersani aveva pensato a un polo della Speranza, ndr) o per Vannino Chiti, reggenti in pectore o almeno in pole, è evidente che il Partito democratico ha un enorme problema con i leader, il leader, la leadership.
Il Pd, infatti, è allergico al concetto, dunque nell'epoca della politica leaderistica ne soffre, sopratutto alle elezioni. E dire che il Pd nasce proprio su (e attorno a) uno strumento utile (e democratico) per creare e scegliere leadership (più o meno) popolari, cioè le primarie.
Il Pd è talmente alieno all'idea di un leader che al massimo può averne tanti, magari due in perenne gara e/o faida tra loro. Il Pd è talmente alieno all'idea di un leader forte che Pier Luigi Bersani ci tenne subito a dire che lui il nome sul simbolo non lo avrebbe mai messo, anche perché la sua non era una leadership personale ma di squadra.
Questo mal di capo è stato evidente fin dalla nascita della principale forza del moderno centrosinistra. Basta elencarli – a memoria, ci potrebbero essere dimenticanze – basta elencarli i leader del principale partito della sinistra dal 1994 e dal Pds a oggi (Achille Occhetto, Massimo D'Alema, Piero Fassino, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani) e poi basta elencare e sommarli i leader delle coalizioni di centrosinistra (lo stesso Occhetto, Romano Prodi due volte, lo stesso D'Alema, Giuliano Amato, Francesco Rutelli, lo stesso Veltroni, lo stesso Bersani) per vedere che qualche problema con il leader forte c'è, soprattutto considerato il fatto che mentre in quasi vent'anni da una parte si consumavano leader a volontà dall'altra parte c'è stato sempre e solo il signor B.
Ogni volta che si elegge un leader, nel Pd s'inizia a segare le gambe della seggiola su cui siede. Si è tentato di arginare il male con un leader forte ma senza partito, come Prodi, e due volte è finita male: seggiola segata da fuoco amico. Con i leader con partito poi è finita male alle elezioni.
L'acme del male oscuro è nel dilemma se unire o no la figura del segretario con quella del candidato premier. I sintomi del male sono le continue rivalità-diarchie (inutile fare l'elenco, basta pensare a due soli esempi: D'Alema-Veltroni, Bersani-Renzi). Il ridicolo si sfiora nel florilegio di definizioni tutte tese a evitare di usare la parola leader o capo (sia mai): segretario, reggente, traghettatore, caminetto, assemblea, direzione eccetera.
Da che cosa nasce questo male?
Primo, dalla naturale propensione della cultura di sinistra a non vedere di buon occhio il capo, colui che conduce, e ogni riferimento all'antifascismo militante è sano e giusto.
Secondo, il capo più capo della sinistra, dopo Palmiro Togliatti, è stato Bettino Craxi e per molti ex comunisti, se Togliatti fu il Migliore, Craxi è stato il peggiore. Non importa che sia giusta o sbagliata (più probabile) l'opinione diffusa, però è molto diffusa.
Terzo, il Pd vuole differenziarsi dal partito personale che guida il centrodestra, ovvero da Silvio Berlusconi e dal (suo) Pdl.
Tutto (quasi) giusto, ma con juicio, no? In questi giorni sarebbe ovvio pensare, come accade in quasi tutte le democrazie occidentali, che il capo del partito sia il leader più alto in carica. Non volendo scomodare Giorgio Napolitano, visto che già lo abbiamo chiamato a uno straordinario, sarebbe naturale che fosse Enrico Letta, premier in cerca di una narrazione, il leader del Pd.
E invece? Siccome la gara vera è e sarà sempre di più quella tra lo stesso Letta e Matteo Renzi, allora si candidano Gianni Cuperlo, Anna Finocchiaro, Guglielmo Epifani, Roberto Speranza, magari anche Sergio Chiamparino. Possibile?
L'assurdo è che il Pd il suo leader di solito lo vuole o nascondere o bruciare. Fosse che fosse questa una delle ragioni per cui il centrosinistra perde le elezioni anche quando le vince…?