La versione del libro di Cazzullo raccontata da mio nonno, Ugo, nome di battaglia Annibale, partigiano garibaldino addetto al servizio d'informazione, è un'altra.
Mi spiego. Il libro del momento, quello che bisogna assolutamente leggere, s'intitola "La mia anima è ovunque tu sia", è scritto da una firma del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo, appunto, ed è edito da Mondadori. Ha anche un lungo sottotitolo, ma in questo caso poco conta. Più o meno parla di "un delitto, un tesoro, una guerra, un amore".
In realtà, parla soprattutto di un tesoro e qualche amore, oltre che ovviamente della libertà. Beh, la versione di mio nonno, Ugo, morto alcuni anni fa, è un'altra. Ma molte cose combaciano. E la differenza delle versioni nobilita il libro di Cazzullo, me lo rende imprescindibile.
Perché il libro di Cazzullo è maledettamente geniale. Quasi freudiano. Almeno per me. Perché è una vita che cerco di capire quale parte dei racconti di mio nonno, Ugo, valga la pena raccontare. Ci penso e non ci riesco. Ecco che cosa distingue, forse, un giornalista da uno scrittore. Forse. Troppo ardire, da parte mia, pensare di scriverci un libro per molti, ma almeno un diario per me, questo sì. Questo almeno speravo di scriverlo. Lo ha fatto un altro per me, meglio. Mi confronto. Eccoci.
Lo ha scritto con uno stile asciutto come la parlata viterbese di mio nonno e lo spirito spocchioso e coraggioso di quando diceva: "Noi siamo alpin, beviamo il vin". E non era nemmeno alpino, ma orgogliosamente carabiniere, prima di essere "sbandato", condannato a morte e salvato da un maresciallo, prima di, diciamo, sottrarre le armi nasconte sotto l'altare di una chiesa da quelli di "Giustizia e libertà, che a loro gli americani facevano continuamente lanci di armi dagli aerei".
Il libro di Cazzullo è scritto ovviamente bene. Si può discutere, cioè può non piacere, la scelta dell'espediente letterario dell'alternanza di capitoli e tempi storici: 1945, 1963, aprile 2011. Può sembrare eccessivo. La storia era così vera che valeva la pena raccontarla con un semplice "c'era una volta…". Però il libro, concessioni agli editor a parte, è scritto come un impeto di liberazione, con schizzi di amore e malinconie di amicizie. Dunque alla fine funziona. Alla grande.
Ma la cosa per cui è maledetto, nel senso buono e fortunato del termine, e dal mio punto di vista, è che avrei voluto scriverlo io, dunque è benedetto. Ripeto, non come libro, avrei voluto scriverlo, ma come diario, memoriale di famiglia, di una parte della famiglia. Non per la gloria, non per il libro, ma per mio nonno, Ugo, nome di battaglia Annibale, carabiniere monarchico volontario d'Albania prima, partigiano garibaldino di indole socialista "ma mai craxiano", ma soprattutto "garibaldino perché nella mia zona c'erano i garibaldini e a me interessava soltanto che non ci fossero più i fascisti".
Ho registrato ore di conversazione con mio nonno senza capire che il dettaglio del tesoro era la chiave che stava per ragalarmi per chiudere con il passato, il suo, il mio, il nostro.
Bene che l'abbia scritto lui, Cazzullo, mi sono risparmiato quella demoralizzante usanza della presentazione dei libri (peraltro non avrei avuto il coraggio di proporlo a nessun editore), quelle telefonate da fare agli amici giornalisti: "Senti, hai ricevuto il libro, mi interessa davvero il tuo parere…". Traduzione: convinci il tuo direttore che il volume merita almeno una doppia paginata.
Beh, questo libro di Cazzullo non ha bisogno di tutto ciò, perché ha una storia unica da raccontare. Quella di mio nonno. Leggetela, se amate le Langhe, se amate l'Italia, se amate le storie dei nonni che fanno forti gli orgogli dei nipoti. Sono fierissimo di mio nonno, anche se di errori, e gravi, ne ha fatti. Ma queste sono robe di (tutte le) famiglie.
Non voglio raccontare nulla del libro di Cazzullo, però la versione di mio nonno, Ugo, nome di battaglia Annibale, perché siccome veniva da Roma lo prendevano in giro, i langhetti, chiamandolo "Annibale", è diversa.
Non voglio raccontare nulla del libro di Cazzullo perché va letto. Anche mio nonno raccontava di Lulù. Anche mio nonno c'era nei clamorosi giorni della città di Alba. Perché mio nonno diceva: "E' inutile che ti racconti. Non mi piace, sembra che voglia dire che io sono chissà chi, leggiti Fenoglio, e capisci tutto". Però la versione di mio nonno era diversa.
La versione di mio nonno era questa: il tesoro era dei Savoia, fu sequestrato su un ponte – lui c'era – sulla via di Pollenzo, bottino di guerra, ma poi fu restituito in cambio della vita di sette partigiani prigionieri dei nazi-fascisti.
Però una cosa torna precisa precisa, a mediare tra le due parti fu il vescovo. La storia, il romanzo, l'Italia.
Solo per dire che il libro di Cazzullo vale la pena di leggerlo.
Ciao Ugo.